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Gertrud

Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film

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La recensione su Gertrud

di spopola
10 stelle

Cos’è dunque la significanza della parola “amore” per Gertrud, per questa donna forte, tenace e conseguente fino al sacrificio che ardentemente, ma invano, all’amore anela? Il film questa risposta ce la dà, a partire dal fatto che Gertrud è il personaggio femminile più forte del cinema di Dreyer e uno dei più potenti del cinema di tutti i tempi.

“Poco noi sappiamo, ma che ci dobbiamo tenere al difficile è una certezza che non ci deve abbandonare: è bene essere soli perché la solitudine è difficile; che alcuna cosa sia difficile, deve essere una ragione di più per attuarla”. (Rainer Maria Rilke)

locandina

Gertrud (1964): locandina

 

Nel cinema di Dreyer è spesso preponderante l’uso dei primi piani (cito a titolo di esempio La passione di Giovanna d’Arco a proposito della quale lo stesso regista scrisse a suo tempo: Non so come avrei potuto raccontare la storia della condanna a morte di Giovanna d’Arco se non avessi potuto, a mezzo dei primi piani, condurre il pubblico dentro i più intimi meandri dell’animo di lei e dei suoi giudici… a far loro vivere da vicino la tortura fisica e spirituale che essa dovette soffrire e a mostrare nello stesso tempo anche come i giudici e i torturatori reagirono ai suoi pianti e lamenti”).

Trattandosi di cinema dell’epoca del muto comunque, quella era una peculiarità presente – quasi  mai però con la stessa forza emotiva emanata dalle sue immagini – in più o meno tutte le pellicole girate  nello stesso periodo anche da altri autori, e quindi potrebbe essere un elemento che non fa  “testo” da solo per suffragare il discorso che intendo fare a proposito di Gertrud e del suo valore anche formale.

Dovrei dunque più propriamente parlarne (ed è importante che lo faccia) citando soprattutto le successive opere da lui realizzate dopo l’avvento del sonoro come Dies irae o Ordet dove sono ancora i primi piani ad essere gli elementi centrali della sua narrazione per immagini, peraltro utilizzati in maniera ancor più articolata e specifica (diventando  di fatto “linguaggio”,  “stile” e “sostanza comunicativa”) con l’evidente obiettivo di far loro assumere il ruolo di un vero e proprio “elemento d’urto” finalizzato a esplicitare (e definire meglio) i risvolti più imperscrutabili delle  tormentate anime che affollano il suo cinema e portare così alla luce  attraverso i suoi straordinari “studi” psicologici (nei quali si inserisce di diritto anche questa sua ultima fatica)  i  travagliati dilemmi intimi e profondi che si agitano all’interno della loro psiche.

 

Primi piani dilatati e “scorrevoli” come li definì Guido Aristarco, dunque  riproposti ogni volta in forma più “dinamica” e “discorsiva” che tengono costantemente a fuoco i volti degli attori, così da farli interagire direttamente con la “coscienza critica” dello spettatore “costretto” suo malgrado a “penetrarli” fino in fondo e  a leggere (e interpretare) attraverso di essi, anche i loro pensieri, quasi che si trattasse di vere e proprie cartine di tornasole immerse nell’inconscio della mente.

La loro abbondanza all’interno della struttura narrativa è insomma analoga a quella che si rendeva necessaria ai tempi del muto,  ma in Gertrud per esempio oltre a presentare alcune sostanziali differenze strutturali, è accompagnata anche da un’altrettanto importante presenza (la definirei primaria) del sonoro (il parlato e la musica) qui chiamato ad assumere analoga rilevanza paritaria come mai era accaduto prima nel suo cinema. Da segnalare inoltre il largo impiego di  lunghi, estenuanti  piani sequenza a macchina semi-fissa che arrivano anche a superare i dieci minuti di lunghezza, all’interno dei quali i fondamentali, imprescindibili dialoghi, sono “declamati” dai protagonisti della storia  (posti quasi sempre uno davanti all’altro in un  confronto verbale che ricorda da vicino la tecnica antinaturalista dell’epica straniante divulgata dalle teorie brechtiane) che si osservano a distanza ravvicinata ma con lo sguardo costantemente orientato a  “scrutare l’oltre” (o – per essere ancora più precisi -, a guardare davanti a se stessi anziché  verso l’altro soggetto  della “conversazione”).

Un procedimento molto particolare questo che accentua volutamente l’aspetto “teatrale” della rappresentazione (anche nella scansione canonica suddivisa in “atti”) e che per stessa ammissione del regista, rimanda direttamente a  Söderberg (autore del dramma da cui il film è tratto)[1] proprio come fonte letteraria di riferimento, che nelle sue creazioni (romanzi o opere teatrali) ha più volte scritto:”Declamavano uno davanti all’altro”, concetto evidentemente condiviso in pieno anche da Dreyer che al riguardo, nel corso di un’intervista, ha detto: in certe situazioni gli uomini non si osservano reciprocamente o non si guardano negli occhi quando parlano, ma guardano invece davanti a se stessi, ed è un fatto che - cinematograficamente parlando – può essere ben sfruttato per scrutare in profondità i volti con la cinepresa poiché la mimica facciale è molto importante e rivelatrice dei tumulti interiori sia quando si parla che quando si sta zitti ad ascoltare[2].

Gertrud diventa così di fatto una preziosa anomalia (anche stilistica) nel suo riuscire a  legare indissolubilmente fra di loro, il cinema dell’immagine e quello di scrittura, cosa questa che colloca la pellicola il più lontano possibile dal cinema consumistico della spettacolarizzazione proprio in virtù del rigore assoluto che lo permea che ne fa davvero un unicum quasi inclassificabile che semmai può rimandare in parte  al cinema altrettanto innovativo e problematico di Antonioni o di Bergman col quale mantiene qualche interessante punto di collegamento formale (con Bergman anche contenutistico). [3]

 

Qui insomma portando alle estreme conseguenze l’essenzialità “francescana”  di un’opera realizzata da un fervente, sincero credente (una fede ovviamente filtrata da una visione di stampo  “protestante” delle cose), Dreyer sembra voler approdare  a una specie di “ateismo religioso” di sorprendente attualità che rappresenta una delle più significative “variazioni” rispetto al suo precedente percorso artistico.

Credo che sia possibile rilevarlo con inoppugnabile certezza dalla seguente frase che fa pronunciare a Gertrud nella fase terminale del racconto: Quando sarò sull’orlo della tomba e mi guarderò indietro nella vita, dirò a me stessa: ho molto sofferto e spesso ho sbagliato, ma ho  amato che su questa dichiarazione di “fede laica”- il suo “credere” ciecamente solo nell’amore (Non c’è altro nella vita che l’amore… niente, niente altro) - chiude  anche simbolicamente, la porta alle sue spalle, si separa dal mondo e si congeda da se stessa: straordinaria allegoria che rimanda a Strindberg e al suo Diario segreto dove scrive: “il Mistero della porta chiusa = Niente”, alludendo proprio alla porta chiusa del suo dramma “Il sogno”[4] dietro alla quale alla fine si scopre che esiste solo il vuoto).

 

Gertrud è dunque soprattutto  una dolorosa testimonianza del fatto che quasi sempre l’amore non  ne produce altrettanto nella persona amata: il film ne certifica il bisogno e l’impossibilità evidente per questa donna integralista col culto del sentimento assoluto, di accettare un possibile compromesso mediato. Per lei, resta la condizione essenziale per poter immaginare una vita di coppia da percorrere insieme. Una figura la sua che per la determinazione estremizzata che proclama (una specie di proto-femminismo dei sentimenti) finì per irritare molti intellettuali (non solo della critica ufficiale) maître á penser di quel periodo, taluni ritenendo che quella tombale porta dreyeriana si fosse chiusa pesantemente anche  su una ribellione senza prospettive, e perciò fallimentare fin dalla nascita, coprendo, con la pietosa menzogna della consapevolezza di “aver amato” la profonda incapacità di amare manifestata da una donna, che dell’arma dell’amore si è servita maldestramente sconfiggendo e rimanendone sconfitta (Virgilio Cipollone); altri accusandola (e insieme a lei il regista) di una troppo ostentata laicità di fondo forzosamente priva di ogni “incomprensibile” residuo di religiosità (anche latente) che origina una tesi davvero insostenibile (e ancor meno accettabile) estranea alla poetica del regista che fa naufragare l’intero impianto narrativo, ipotesi quest’ultima fortemente contestata dallo stesso Dreyer che in risposta a una precisa domanda sul perché di certe scelte trovate più che discutibili rispetto a tutti i suoi precedenti lavori – e si alludeva soprattutto al qui disatteso problema della “fede” -  rispose laconicamente: “Qui la religiosità non è un argomento all’ordine del giorno: se il mio scopo fosse stato quello di fare un film cristiano o che intendesse parlare anche di questo, non avrei fatto di Gertrud una più che credibile miscredente: lei stessa nel suo ultimo incontro con Erland Jansson, afferma apertamente di non credere in Dio, ma questa è solo una constatazione che non apre assolutamente la porta a un possibile dibattito (che trovo illegittimo) sul fatto che sia una cosa giusta o sbagliata. Così è infatti scritto nel testo di Söderberg, ma che io abbia conservato intatto nel film questo passo del dialogo, è del tutto voluto e intenzionale: aiuta a connotare la valenza terrena della protagonista. Se non fosse così, avrei potuto cancellare le battute o fare un altro film”  (ed è un vero peccato – aggiungo io - che non gli sia stato concesso di farlo un altro film, di realizzare insomma il suo Gesù che credo avrebbe potuto definire ancora meglio questa sua posizione di pensiero più “laicheggiante” del passato)[5] .

Per Dreyer quindi, Gertrud è un’idealista dei sentimenti e delle passioni alla quale si contrappongono tre uomini (il poeta Gabriel Lidman, l’avvocato Gustav Kanning, il giovane musicista Erland Jansson) tutti  innamorati di lei, ma nessuno dei quali è disposto a priorizzare il sentimento che provano fino ad elevarlo al di sopra di ogni altra cosa. Di conseguenza, questa eroina dell’assolutismo, non potrà che chiudere ogni possibile interazione sentimentale con ciascuno di loro optando per la solitudine.

Dreyer ci presenta insomma una donna  superiore - per la quale scegliere è volere - che si oppone a ogni determinismo fatalistico, il che la porta a opzionare i suoi compagni soprattutto “in nome dell’amore” senza tenere minimamente conto della pesante zavorra (anche ideologica) costituita dai legami istituzionalizzati difficili da ignorare anche per una cantante lirica affermata e celebre quale  essa è  (non dimentichiamo – per comprenderne appieno il coraggio e la determinazione - che qui siamo ancora agli albori del ‘'900) ma da nessuno dei quali viene poi ripagata con la stessa moneta (e di fatto  nessuno di questi rappresenterà alla fine la scarpa giusta per il suo piede nel conflitto costante che contrappone la sua sete di assoluto a uomini ambiziosi troppo assorbiti dal lavoro, dalla posizione sociale e dal denaro o da  una megalomania vanesia ed egocentrica).[6]

 

 

IL FILM

 

Il film ricorda la follia e la bellezza delle ultime opere di Beethoven” (Jean-Luc Godard)

 

Gertrud  approdò al Lido di Venezia dieci anni dopo il Leone d’Oro vinto nel 1954  con Ordet  - La parola ma senza suscitare gli stesse entusiasmi, tutt’altro: la stragrande maggioranza della critica italiana (e anche francese) lo liquidò velocemente come un film non all’altezza della fama dell’Artista, scambiandolo (con sguardo davvero troppo miope), per uno stanco e inattuale esperimento di teatro filmato e classificandolo di conseguenza come un errore di vecchiaia, paragonabile alla “caduta verticale” di Chaplin con il suo tardivo (e anch’esso conclusivo) La contessa di Hong Kong (entrambi furono accusati con eccessiva superficialità “saccente”, di “senescenza artistica”, principalmente per il fatto che si trattava di due vecchi progetti ripescati dagli archivi della propria memoria che li faceva odorare di stantio, rimasticati fuori tempo massimo).

Furono davvero in pochi ad entusiasmarsi subito considerandolo davvero per quel che era e resta, un grande “capolavoro”: fra questi,  Godard (come si è visto) che lo paragonò alla grandezza degli ultimi lavori di Beethoven, Guido Aristarco  (e tutta la corrente gravitante intorno a “Cinema Nuovo”)  che lo esaltò con una serie di articoli di grande spessore e pochi altri. Anche Abruzzese fu dalla loro parte  ma la maggioranza lo liquidò dedicandogli davvero  poca attenzione. Nell’immediato insomma non si riuscì a capire che la straordinaria profondità di sguardo del regista non si era minimamente appannata, ma aveva prodotto invece un’opera  quasi sperimentale, controcorrente e (forse) troppo in anticipo sui tempi che aveva colto di sorpresa gli impreparati, “distratti”  detrattori, uscita peraltro in un periodo poco disponibile all’analisi e alla  riflessione: eravamo talmente smarriti dentro il labirinto dei pregiudizi, sprofondati e  sommersi nel mare della volgarità, che si faceva davvero fatica a riconoscere la bellezza e l’importanza di un’opera tutta incentrata sul tema dell’amore (e sulla difficoltà ad essere ricambiati) definita ancora da Aristarco con intuizione geniale, come una specie di fiore solitario, isolato, sorto lontano dall’arida terra di un erotismo dilagante (…) al limite della pornografia.

 

Realizzato da “un giovane di 75 anni”, Gertrud è dunque il dramma di un’anima nella tormenta della vita con cui il regista porta alle estreme conseguenze l’austerità ieratica del suo linguaggio scarno e raffinato senza rinunciare però ai nuovi mezzi “tecnici” e di sintassi del racconto già fortemente in uso in quel periodo, come il ricorso al flashback mai da lui utilizzato prima.

Rigido e ascetico nella forma (un’azzardata operazione stilistica coraggiosa e potente fatta soprattutto – come si è visto - di  inquadrature fisse, piani sequenza, un montaggio costruito come una serie di segmenti giustapposti che concentrano momenti emblematici separati da lunghe scansioni in dissolvenza, suono in presa diretta e una  recitazione quasi atonale che, oltre ai nomi prima citati - Bergman, Antonioni e Brecht- rimanda pure al cinema “essenziale” di Bresson e Straub[7]) ha il tono quasi sospeso ed esitante di una meditazione sul mistero dell’esistenza. una specie di psicodramma insomma incentrato su una straordinaria figura femminile libera e audace, del tutto diversa dalle oppresse eroine dei suoi film precedenti (ed è la prima volta che il regista mostra di accettare quel che la donna è, senza opporre nulla).

Ciò che la contraddistingue e la rende un grande personaggio proto-femminista (l’incarnazione stessa dell’amore, secondo Godard), è il fatto singolare (non solo per l’epoca in cui è ambientata la vicenda, ma anche per gli anni in cui è stata realizzata la pellicola) che non si lascia soffocare né giudicare (è il commento di Dreyer quando accenna  all’epilogo da lui aggiunto al testo della pièce).

Di fatto allora, la sua  vicenda è una sorta di tragedia della liberazione raccontata in una forma  dolorosamente “prosciugata”, purificata da ogni naturalismo che qui sarebbe stato davvero pernicioso.

 

Diversi e universali sono pure  i temi affrontati dalla pellicola che non si esauriscono in quelli dell’erotismo e dell’amore ma travalicano anche nell’analisi delle dissonanze  “discrepatiche” che separano la teoria dalla pratica e dalla distanza spesso incolmabile esistente fra pensiero e azione, fatalismo e significato della vita. Amare è bene, - scriveva ancora Rilke (Lettere a un giovane poeta e a una giovane signora su Dio, Vallecchi editore, 1958) ma è l’amore ad essere difficile. Voler bene è forse il più arduo compito che ci sia imposto, l’estremo, l’ultima prova e testimonianza, il lavoro per cui ogni altro lavoro è solo preparazione.

Si può allora concludere col dire che Dreyer, pur di fede protestante, ha mostrato più volte  di essere sensibile al tema della trascendenza spesso presente nella sua opera, ma questa è una storia che riguarda semmai il suo percorso precedente perché Gertrud, più semplicemente, è invece solo  il trepido ritratto  di una donna che non concepisce l’amore se non come la più alta manifestazione della dignità umana. E ne soffre, perché dal confronto con l’altro ne esce sempre sconfitta.

Il film è  girato con ammirevole moderazione anche nei toni. Gli attori infatti – tutti perfettamente in parte - pur dovendo rappresentare passioni travolgenti,  raramente alzano la voce e onorano le esigenze del regista  con una recitazione raggelata di particolare efficacia.

Ci sono poche scenografie e  ancor meno sequenze girate in esterni: fra i grandi registi del secolo scorso, forse solo Ozu ha osato tanto (intendo dire lavorare – e raggiungere tali risultati – con una simile economia di mezzi tecnici e di budget a sua disposizione)[8].

Il suo è stato dunque un “congedo” davvero di eccellente e moderna rilevanza perfettamente inquadrato nel novero delle battaglie culturali nordiche per l’indipendenza e per l’emancipazione femminile (portate avanti negli anni in cui il film fu concepito) contro retrive concezioni borghesi su sesso, donna e famiglia.

 

DESCRIZIONE DI UNA SEQUENZA (PER ME) DAVVERO MEMORABILE

 

Credo nel desiderio della carne e alla irrinunciabile solitudine dell’anima.

 

Quando finalmente si svegliò si accorse che la stava fottendo; e che si era sintonizzata con un crescendo sessuale come il fotogramma di un’azione in corsa. (Thomas Pynchon, L’incanto del lotto 49, 1966) a mio avviso una perfetta parafrasi per introdurre una delle scene clou dell’intera opera, quella in cui, dopo una lunga sequenza ambientata in un appartamento claustrofobico all’interno del quale la donna ha appena confermato all’antiquato marito di mezza età che non lo ama più e che ha deciso di andarsene, si passa in dissolvenza a quella successiva in cui la macchina da presa già in movimento, segue a distanza ravvicinata il passo della donna che  attraversa il parco (forse il solo momento “luminoso” che apre uno spiraglio alla speranza – non a caso girato in esterni) per andare all’appuntamento con il compositore molto più giovane di lei di cui si è innamorata. Uno stacco così improvviso (e inaspettato) che ben esprime non solo nell’andatura “giocosa” della donna, ma anche nei movimenti sommessi e carezzevoli della cinepresa, l’infatuazione amoroso/sessuale e l’impaziente “aspettativa estatica” (definita dal critico Jonathan Rosembaum[9] l’infatuazione e la passione orgiastica) che la spinge verso Erland, il tutto reso ancor più evidente dalla frase lamentosa di un flauto, nella colonna sonora (la prima musica che sentiamo dopo i titoli di testa), che accompagna il suo incedere.

I due si incontreranno poi sulle rive di un tranquillo laghetto che sembra brillare del felice “rapimento dei sensi” che Gertrud riesce a esprimere splendidamente con la forza del suo sguardo.

Più avanti nella storia, ritroveremo i due ancora lì, esattamente nello stesso posto, ma in una situazione diametralmente opposta perché proprio in quel luogo, davanti a un laghetto ora increspato da una lieve turbolenza che lo rende cupo e minaccioso (potenza della fotografia!) il compositore spezzerà definitivamente il cuore della donna e il suo “sogno di impossibile”: (Amare… sì, che significa in fondo?Mi è sempre sembrato che “amare” fosse una parola strana. Suona così estranea,(…) No, io non ti amo. Se ti amassi partirei con te infischiandomi di qualunque altra cosa. Io sogno… una donna. Ma tu non sei quella donna. Essa dovrà essere innocente e pura. Dovrà ubbidirmi ed essere proprietà mia, tu sei così orgogliosa. Prima pensavo che fosse il solito orgoglio della gran signora… ma è anche peggio. E’ il tuo carattere che è orgoglioso).

 

SINOSSI

 

Tratto dal dramma teatrale scritto da Söderberg nel 1906 (e riletto da Dreyer a sessant’anni di distanza), il film è ambientato a Stoccolma agli inizi del novecento. Narra delle tribolazioni di una donna innamorata dell’amore disillusa da esperienze per lei talmente negative da spingerla verso una cosciente, ricercata solitudine.

Dopo una breve relazione con il poeta Gabriel Lidman, si troverà infelicemente sposata con un avvocato con mire politiche che è stato nominato ministro della Giustizia a coronamento dei suoi sogni di carriera. Delusa, la donna deciderà così di abbandonare il marito perché tra loro  sente “che non c’è più amore”  ormai definitivamente soffocato da troppa ambizione.

Un nuovo, tormentato amore la legherà però  al giovane e fatuo,  volubile e vanesio compositore Erland Jansson: è con lui che pensa di poter ricominciare a vivere. Ma una nuova delusione l’aspetta dietro  l’angolo, dolorosa quanto forte è stata l’infatuazione per il musicista: il suo vecchio amante Gabriel Lindman,  le rivela infatti che il giovane Erland si gloria davanti a tutti di essersela portata a letto. E che sia un fatuo inaffidabile lo conferma lui stesso rifiutando di partire con lei. Gertrud si ritrova sola un’altra volta e non intende nemmeno tornare con Gabriel,  anche se la memoria del suo amore, rievocato in flashback, ancora la turba, ma non può dimenticare le sue parole così ciniche, lasciate scritte su un foglio (L’amore della donna e il lavoro dell’uomo sono nemici in partenza).

Respinge l’offerta dello psichiatra Axel Nygren, amico di vecchia data che vorrebbe condurla a Parigi, lascia definitivamente la casa del marito ministro e si trasferisce prima in una città di provincia e alla fine sceglie di andare anche lei a Parigi ma per viverci in assoluta solitudine.

Ormai vecchia, riceverà la visita del suo vecchio amico psichiatra al quale la donna confida  quanta importanza l’amore abbia avuto nella sua vita.

 

STRALCI  DI  UN’INTERVISTA  A  DREYER RACCOLTA  DA BORGE TROLLE NEL MAGGIO DEL 1965

 

Cosa pensa dell’accoglienza piuttosto contrastata che ha avuto Gertrud?

            (Dreyer sorride ed allarga le braccia) In fondo, sono abituato; la gente può prendere nei confronti del film l’atteggiamento che ritiene più giusto. Per me ha importanza aver creato un film che io possa riconoscere come mio.

 

La realizzazione di Gertrud è un suo vecchio sogno?

            Sì, credo sia stato verso gli anni venti che volevo realizzare qualcosa di Söderberg; questo  grande drammaturgo mi ha affascinato fin dalla mia prima giovinezza. Si trattava in un primo tempo di Dottor Glas e di Martin Bircks ungdom (la giovinezza di Martin Birck), ma il mio interesse per questi soggetti era quasi esclusivamente di carattere privato. Per Gertrud invece il mio scopo è stato fin dal primo momento legato al desiderio di realizzare un film xsu questa volitiva donna, ma ho dovuto abbandonare momentaneamente l’idea perché c’era molto dialogo ed eravamo ai tempi del cinema muto. Il progetto è dunque rimasto per lungo tempo nel cassetto.  La stessa cosa (che è molto frequente nel mondo del cinema) è accaduta anche per  Vredens Dag (Dies Irae)  e per Ordet, di cui avevo preparato le sceneggiature molto tempo prima di riuscire a realizzarli: era troppo presto, che è poi quello che sta accadendo ormai da vent’anni  per il mio film Jesus: tutto è pronto, ma non trovo l’uomo che mi dia i mezzi e la libertà di realizzarlo.

 

Quando Gertrud è stato scritto, nel 1906, era un dramma  contemporaneo. Si svolgeva a Stoccolma all’inizio del novecento. Da allora sono passati sessant’anni. Lei mantenendo l’epoca originale nella realizzazione cinematografica, disegna (o meglio riproduce), con grande scrupolosità un quadro dei costumi del tempo. Ma la differenza di epoca, tra il tempo del dramma ed adesso, ha avuto influenza sul suo film?

            Non credo. Non c’è infatti alcun ambizioso aspetto “modernistico” nella mia opera. Sono comunque convinto che il conflitto sviluppato nel dramma sia altrettanto attuale oggi come sessant’anni fa.

 

So che dapprima lei voleva girare il film a colori. Il fatto di averlo poi dovuto realizzare in bianco e nero ha avuto qualche influenza sul progetto originale?

            Per niente. Lo stile in bianco e nero è stato però improvvisato sul momento. L’unica cosa che è stata progettata in anticipo è che i due flashback e la parte finale del film dovevano essere tenuti in un tono fotografico più chiaro.

 

Questa diversità di toni doveva sottolineare certi passaggi dell’azione?

            Sì, ma rimane un compromesso che non realizza interamente l’intenzione che avevo in mente.

 

E se il film fosse stato girato a colori?

            Allora, con l’aiuto dei colori, sarebbe stato possibile esprimere e sottolineare meglio quello che adesso ho invece dovuto accennare  con maggiore approssimazione ricorrendo alla diversità dei contrasti. Se avessi avuto l’autorizzazione economica per poter girare a  colori, avrei senz’altro chiesto ad Adolf Hallman[10] di essere il mio consulente per il colore. Egli  ha pubblicato un libro, L’élite di Stoccolma. Mi sembra nel 1910. E’ una pubblicazione piena di schizzi ed illustrazioni per lo più a colori, che hanno per soggetto la Stoccolma dei primi anni del 1900: precisamente lo spazio di tempo in cui si svolge la vicenda di Gertrud. I suoi suggerimenti (e i suoi colori) mi sarebbero stati senz’altro di particolare aiuto.

 

Ha usato l’edizione svedese dell’opera come base per la rielaborazione del manoscritto?

                Sì. Ho letto prima una traduzione in danese, ma l’ho adoperata piuttosto come testo d’emergenza per poter penetrare immediatamente nel contesto dei fatti e del dramma. Poi ho acquistato il testo originale svedese e su quello ho lavorato per il successivo adattamento cinematografico.

Al film è stato aggiunto un “epilogo” che nell’opera di Söderberg non c’è, un epilogo che mostra Gertrud da vecchia. E’ stato elaborato da lei stesso?

                Per quanto riguarda la sceneggiatura, questo “epilogo”, come lei lo chiama, è opera mia. Ma è basato realmente su qualcosa di concreto, cioè su Maria von Platen[11], che è stata modello ed ispirazione di Söderberg per Gertrud. Già nei miei primi colloqui con la signora Betty Söderberg, la figlia dello scrittore con la quale ho discusso i miei progetti, proposi di aggiungere un epilogo del genere, cosa che la signora Söderberg ha subito approvato. Temevo infatti che il pubblico non volesse accettare nel film il modo in cui si conclude il testo teatrale: lei fugge e lui le corre dietro invocandola, «Gertrud, Gertrud!». Poi cala il sipario. Io non ho osato farlo nel film e, del resto, mi sembra che nel corso della narrazione si cominci a voler tanto bene a Gertrud da desiderare di sapere quello che le accade dopo. Abbiamo così l’occasione di vedere che non rimpiange se stessa e non si pente di nulla poiché è lei che si è imposta la solitudine come condanna.

Per ritornare all’azione ed  all’intenzione del film, lei ritiene che le pretese di Gertrud nei riguardi dell’amore fossero troppo violente?

            Certamente (più che di violenza parlerei però di assolutismo), e non v’è dubbio che anche lo stesso Söderberg  la vedesse così. Né allora, quando l’opera teatrale fu scritta, né adesso, c’è da aspettarsi  però che l’uomo accetti e condivida.

 

Lo stile ed il modo di recitare che lei adopera nel film, dove le persone declamano una davanti all’altra, è usato volutamente da parte sua?

            Sì ed è l’elemento portante della mia lettura del testo. Perché la ripresa di un dialogo – mi sono sempre domandato – deve sottostare alla regola che le persone devono essere presentate di profilo oppure una delle due deve essere vista di schiena? In tal modo, l’insieme delle persone può facilmente perdere di significato mentre invece in un dialogo entrambe le facce sono importanti.

 

I primi piani sono stati però tralasciati.

            Lei dice? A me non sembra proprio. Sono stati realizzati sicuramente in altro  modo rispetto a  quelli più tradizionali utilizzati in Jeanne d’Arc con un processo evolutivo che attraversa tutte le opere che portano a questa mia ultima fatica. Diciamo allora che qui si sono trasformati in “primi piani dell’anima” filtrati attraverso le espressioni della faccia… ma “tecnicamente” sono davvero la stessa cosa (e credo che anche il,pubblico li percepisca in questo modo).  A me sembra infatti che l’occhio della cinepresa sia più vicino ai volti in Gertrud che in genere negli altri miei film.

 

Lei è stato spesso rimproverato di aver fatto film “lenti”, come nel caso di Gertrud.

            Qualcuno prima o poi dovrà spiegarmi che cosa si intende quando si parla di “lentezza”. Per me ritmo e ambiente nei film sono strettamente legasti, sono inscindibili, e questo vale anche per Gertrud, pellicola alla quale ho assegnato il “passo” di cui aveva bisogno. Questo l’ho imparato dal vecchio Victor Sjöström. Ricordo un episodio, credo fosse una scena di Ingmarssönerna (1919), dove si vedono i contadini entrare in una stanza per la cena. L’azione si svolgeva in una delle gradi fattorie della Svezia. I contadini entravano con il passo pesante che avevano nei campi. Non venivano precipitosamente a mettersi a tavola, ma entravano quieti e tranquilli, si toglievano il cappello “lentamente” ed impiegavano un’eternità ad attraversare la stanza. Era sicuramente “lento” nell’incedere, ma quando l’ho visto per la prima volta, mi ha fatto uno straordinario effetto: ci si sentiva immedesimati nel racconto. Aveva insomma il “tempo” giusto per coinvolgere lo spettatore.

 

Nei suoi film c’è la possibilità che gli attori possano eventualmente improvvisare?

            In un’occasione come questa, il dialogo non permette certamente le improvvisazioni. Ci sono invece state in altre mie pellicole quelle che si potrebbero definire manifestazioni spontanee, espressioni, accentuazioni e interpretazioni nate dalla situazione direttamente fatte dagli interpreti. E’ molto bello quando è accade  perché questo aggiunge verità all’azionesembra quasi sempre vero.

 

Lei ha lavorato anche con non-professionisti in altri suoi film ed ho sentito dire che dapprincipio lei pensava di fare lo stesso con Gertrud.

            Sì, il tempo però stringeva e gli attori ai quali avevo pensato per i vari ruoli, erano impegnati  o  i loro programmi si adattavano con difficoltà ai miei progetti. Poi ho girato qualche scena di prova con diverse persone, per lo più artisti, ma non attori. I risultati non sono stati però soddisfacenti e non ho osato fare il film con le persone in questione. Spesso ho avuto non-attori per ruoli minori e sono rimasto molto contento di loro, ma qui c’erano interpretazioni troppo importanti e complesse (difficili si potrebbe dire) che per realizzarle appieno ci volevano dei veri attori.

 

Nel progetto del film si discute della relazione tra l’opera di Söderberg e le antiche tragedie greche. Questa relazione ha avuto influenza nel suo adattamento del dramma per il film?

            No. Il mio comportamento nei confronti della trama di Gertrud non è stato minimamente toccato da questa relazione. Probabilmente però essa ha avuto una certa influenza sul comportamento di Söderberg nei riguardi del soggetto perché dietro al dramma si possono bene intravedere le sagome della tragedia in cui esso si sarebbe potuto tramutare.

 

Ha altri progetti cinematografici al momento?

            Sì, ho parecchi progetti, ma quello che desidero far notare, è soprattutto la difficoltà di trovare  da qualche parte una “persona gentile” che mi dia il suo aiuto economico necessario per realizzarli… Intanto cerco di rimanere attivo, ho letto molto, continuo a leggere, continuerò a leggere e a creare per non farmi poi trovare impreparato.

 

Ma c’è qualcosa che lei farebbe subito?

            Sì, il film su Cristo naturalmente, e poi Medea di Euripide[12]

 

In forma classica  o moderna?

            Classica, ma vista con occhi moderni.

 

Il cinema danese potrebbe realizzare Medea?

            No, né questo, né il film su Cristo possono essere realizzati qui.

 

Ha altre idee?

            Tante, troppe.

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[1] Hjalmar Emil Fredrik Söderberg (Stoccarda, 2 luglio 1869 – Copenhagen, 14 ottobre 1941) è l’autore del dramma adattato da Dreyer con poche variazioni  (la più consistente e significativa è quella di aver eliminato le parti più misogine di un testo teatrale in cui si riflettevano alcune vicende vissute dall’autore che nella protagonista aveva trasferito molti dei tratti di una donna reale e da lui amata appassionatamente ma che lo aveva lasciato per un uomo molto più giovane). Poco conosciuto qui in Italia (e ormai  anche pochissimo “frequentato”),  Söderberg è stato un esponente di spicco del panorama culturale  danese di inizio ‘900  che dopo una non lunghissima esperienza in campo giornalistico (prima di stabilirsi in pianta stabile a Copenhagen dove visse per la gran parte della sua vita, aveva compiuto gli studi e qualche  prova di scrittura nella città di Uppsala) si dedicò esclusivamente alla letteratura (molti romanzi e qualche dramma fra i quali spicca proprio questo Gertrud scritto nel 1906). Se il libro che gli diede la fama può essere considerato  La giovinezza di Martin Brick, romanzo ancora di stampo rigorosamente  naturalista scritto nel 1901, già nel 1898 era stato positivamente  “attenzionato “ dalla critica e dal pubblico grazie a un  libro in cui aveva raccolto una serie di aneddoti  (intitolato appunto Aneddoti).  La produzione più interessante  (e anche più attuale) è comunque quella  compresa fra il 1905 e il 1912 (considerati gli anni della sua  maturità artistica) che oltre a Gertrud comprende anche i romanzi  Il dottor Glas (1905) , Inquietudine del cuore (1909) e  Il giuoco serio (1912) con  i quali conferma (ed esalta) le sue doti di narratore lucido e preciso che, da una posizione di isolato individualismo molto distante dall'opulenza verbale degli scrittori neoromantici del periodo, ci offre una satira amara (molto critica) del costume borghese dei primi decenni del secolo scorso.

 

[2]Nulla al mondo  può paragonasi al volto dell’uomo. E’ un paesaggio che non si finisce mai di esplorare, di particolare bellezza, dolcissimo o aspro che sia. Non c’è  esperienza più alta di quella che può offrirsi in uno studio di posa quando sotto la forza misteriosa dell’ispirazione il volto sensibile di un attore si anima e la sua espressione raggiunge le vette della poesia”. (Carl T. Dreyer)

 

[3]Nella sua prefazione al volume  “Cinque film” dedicato al cinema di Dreyer, Guido Aristarco scriveva al riguardo: “Per l’ultimo film di Dreyer, come per Bergman, si può ripetere quanto sulle origini dell’odierno ateismo religioso osserva Lukács: l’incredulità ha perso il suo pathos sociale liberatore, il cielo vuoto come oggetto di lutto non è che una proiezione del mondo umano che ha perduto ogni speranza di rinnovamento; di conseguenza, il desiderio religioso di consolazione e di salvezza perdura  altrettanto vivo,  fa confluire tutta la sua intensità nel nulla che si è così determinato. Sulla parola “nulla” si chiude il monologo di Persona; sul “niente” della porta chiusa, il vuoto di Gertrud. E tuttavia, dinanzi al “trono di Dio vuoto”, in questa sua forma di ateismo borghese, il desiderio religioso di salvezza che spesso si ritrova in Dreyer (e in Bergman) si arena definitivamente davanti alla sua Gertrud che non crede, che non può più credere (nemmeno al “miracolo”, come invece sapeva ancora fare  Inger, la protagonista di Ordet) e che, strindberghianamente, potrebbe annotare in un ipotetico diario: “Il cielo è nero; si è vissuti  come si è potuto, e non come si è voluto!”. Dreyer ha saputo dunque rappresentare poeticamente e da par suo attraverso la figura della sua protagonista,  la situazione sospesa, quasi di stallo in cui si trova confinata l’intelligenza borghese laica che ha definitivamente perso il senso della fede. (…) Sul piano tematico si può dire allora che Gertrud si avvicina a Persona, poiché in entrambi viene negata ai loro personaggi l’unica possibilità di comunicare con il Singolo Assoluto. Non è un caso insomma che Gertrud non creda in Dio e che il nome di Dio, così ricorrente in Bergman, non sia mai nominato ne Il silenzio”.

 

[4] Scritto nel 1901, è un testo fondamentale del teatro di Strindberg (il suo “dramma prediletto” e quello del suo maggior dolore), che ha avuto messe in scena memorabili come quelle realizzate da Max Reinhardt (1921) e Antonin Artaud (1928). Un testo che – appena sulla soglia del  novecento – porta dentro di sé tutte le audacie (e le contaminazioni) del teatro moderno anche d’avanguardia. Con questo testo Strindberg  superò tutte le convenzioni del tempo per addentrarsi con assoluta naturalezza in una nuova, ancora inesplorata regione, quella del “teatro psichico”. Così scriveva l’autore presentando il testo al momento della sua pubblicazione: “tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono: su una base minima di realtà, l’immaginazione disegna motivi nuovi: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità e improvvisazioni”.

 

[5] Gesù è stato indubbiamente il più ambizioso progetto del regista ma che purtroppo non ha mai trovato un produttore interessato a realizzarlo. A testimoniare il lungo e appassionato lavoro di preparazione dell’opera iniziato addirittura nel 1931, resta la testimonianza di quella minuziosa sceneggiatura (Gesù, racconto di un filmGiulio Einaudi Editore, 1969) e questa accorata dichiarazione dello stesso Dreyer: Il film su Cristo è il progetto al quale ho consacrato gran parte della mia vita. Questo film è la storia dell’Uomo-Gesù. Che sia stato o no figlio di Dio non mi dice gran che. Io conosco il Cristo solo per quello che ha detto e fatto. Era un grande realista e conosceva gli uomini. Ma non si può presentare il Cristo al di fuori del contesto politico nel quale egli è vissuto. Israele era un poco quello che furono la Danimarca e la Francia durante l’occupazione nazista. C’erano dei collaborazionisti, una Resistenza, una borghesia prudente e in mezzo a tutto ciò, un provocatore, Gesù. Voglio dimostrare, d’altronde, che sono stati i romani ad assassinarlo e non i giudei… Mi basterebbero sei mesi di lavoro…  La sceneggiatura è tratta dai quattro Vangeli. Gesù Cristo non  dirà una parola che non sia nel Nuovo Testamento. Se una società volesse finanziarlo, sarebbe il film della mia vita”. La particolareggiata descrizione dei personaggi e dell’ambiente, così come dei movimenti di macchina e delle inquadrature minuziosamente riportati nella sceneggiatura, sono perfettamente in grado di farci percepire  quali sarebbero state  le soluzioni “linguistiche” e figurative alle quali Dreyer sarebbe ricorso (ed è per questo che il rammarico è ancora più grande). Di non minore interesse comunque è anche l’impegno storico e civile profuso a piene mani con cui il regista ha affrontato il tema dell’antisemitismo per smontare (o almeno confutare) l’accusa mossa agli ebrei di aver assassinato Gesù, accusa già implicita nei Vangeli e successivamente sviluppata (per opportunismo semplificativo o per calcolo indotto?) da alcuni teologi e padri della Chiesa, da Giustino a Girolamo, Giovanni Crisostomo e Agostino. La tesi di Dreyer è infatti quella che la cattura e la morte di Gesù traessero origine da un conflitto esistente fra Cristo e le forze di occupazione romane ed è tutt’altro che infondata, poiché trova conferma per esempio nei più recenti (e importanti) risultati della ricerca storiografica sull’argomento (potrei citare tra i tanti testi consultabili, il prezioso “Gesù” di Charles Guignebert che fu tradotto  a suo tempo pure in italiano e pubblicato – se la memoria non mi inganna – ancora da Einaudi).

Nessuno spirito polemico insomma, ma solo lo scrupolo  scientifico e filologico  che ha guidato  l’Artista nella sua ricostruzione che lo conferma una volta di più,  proprio per l’appassionata tensione con cui è stato capace di affrontare i temi della vicenda umana del Cristo e per la forza espressiva che traspare, il più grande, insuperato poeta tragico del cinema(così si concludeva la presentazione dell’opera nel volume einaudiano che ho citato prima).

 

[6]Gertrud, nota cantante lirica (…) rifiuta il compromesso che il lavoro dell’uomo – spesso, del resto, confuso con ambizioni discutibili – debba precedere l’amore per la donna: considera ciò mancanza di sensibilità , peggio dell’indifferenza. Lidman, col quale ebbe la prima esperienza sentimentale, è convinto di essere stato abbandonato da Gertrud, sei anni prima, mentre invece era accaduto il contrario. Fu lui, senza accorgersene, a lasciarla: gli onori che rincorreva, e la fama e il danaro:  tutto quello che luccica lo aveva diviso da lei. Sua è anche  la massima che Gertrud trova vergata su un disegno che la ritrae: “L’amore della donna e il lavoro dell’uomo sono nemici in partenza”. Quando si accorse che Lidman aveva solo il desiderio della carne, sentì vergogna e noia d’essere donna.: si guardò intorno e vide solitudine. Lidman era diventato come gli altri e lei non lo amò più. (…) Pur nella resa, cercò riparo e accoglienza nel matrimonio con Kanning, più maturo di lei,  ma come avrebbe potuto continuare ad amarlo se accarezzava soprattutto potere e onori, e aveva un solo culto, quello di se stesso?. Ambizioso, tutto volto all’ascesa sociale, Kanning accetterà la carica di ministro in un governo che prima aveva osteggiato. Irreprensibile nella sua calma che mai tradisce un’emozione sotto i lineamenti regolari e fini del comportamento, Kanning intuisce però che “il sole è basso. Fa presto buio”. Per scongiurare il pericolo che sente latente, cerca la bocca di Gertrud ed ella invece  gli porge fredda e distante solo la guancia, perché non vuole essere una “cosa” con la quale lui si giace di tanto in tanto, e reclama il diritto che le concede quel patto proposto dallo stesso marito: se uno dei due avesse chiesto la libertà, l’altro doveva concedergliela. Gertrud decide insomma di abbandonare  Kanning, e lo abbandona. Ricomincia per lei la ricerca affannosa dell’amore, nuovamente disponibile a tale probabilità. Crede di trovarlo nel giovane Jannson, di poter ricominciare a vivere dopo sei anni lunghi e vuoti. Ancora una volta però la possibilità le si rivela impossibile: debole, presuntuoso e meschino, il “nuovo astro della musica” vuole l’avventura e coltiva il sogno di una donna a lui inferiore, ubbidiente e sottomessa, e Gertrud ha una personalità troppo spiccata. Gertrud non crede ormai più,  illusoria le appare la “libera volontà”. All’amico Axel Nygren, che da anni continua a scrivere un libro su questo argomento, ricorda come il proprio padre fosse un triste fatalista, le avesse insegnato che nella vita tutto è deciso in partenza. Nulla si può scegliere, né la moglie né i figli: li ricevi e te li tieni, il fato pensa a tutto. Volere e scegliere sono dunque due termini antitetici: ecco il drammatico approdo di Gertrud. Glielo dimostra la sua vita: probabilità e ancora probabilità, ma impossibili. Si sente definitivamente sola: “Niente accade come si immaginava”. Anche’essa constata che esistono soltanto il godimento della carne e la solitudine invalicabile dell’anima. Questo, appunto, il grido doloroso che getta, la sua conclusione, rinunciando peraltro ai sensi. E’ disposta a morire per l’amore, non per il sesso.(…) “Tutto passa, tutto scorre via. Come un fiume”. Lo stesso Kanning avverte che la vita sfugge tra le nostre mani, qualsiasi cosa noi su faccia. Eppure, anche nella sconfitta, in questa possibilità impossibile di produrre amore nella persona amata, Gertrud rimane più ricettiva dell’uomo (…): lei ha cercato di amare, e l’amore rimane per lei  la cosa più importante dell’esistenza umana”. (Guido Aristarco, introduzione a “Carl Th. Dreyer – Cinque film”, Einaudi  editore, 1967) 

 

[7]Un soggetto molto moderno, che ho cercato di portare un po’ verso la tragedia, ma senza grandi effetti, con molta dolcezza, (…) per quel che riguarda la recitazione, credo di essere stato invece molto più radicale: visto che al cinema di fatto le parole muoiono non appena lasciano lo schermo, ho cercato di farle restare il più a lungo presenti imponendo agli attori piccole pause al fine di dare allo spettatore la possibilità di assimilare meglio ciò che viene detto e di rifletterci sopra, perché questo è anche un cinema dove le parole hanno dignità paritaria rispetto alle immagini.” (Carl Th. Dreyer)

 

[8] E’ necessario ricordare però che il film era stato pensato da Dreyer per essere a colori. Si optò solo successivamente per il bianco e nero (soprattutto per una questione di risorse economiche), e in questo, anche se poi i risultati furono ugualmente straordinari, fu costretto a fare buon viso a cattiva sorte.

 

[9] Rosembaum è stato il critico cinematografo del Chicago Reader, oltre che autore di molti saggi (Orson Welles, Essential Cinema, Dead Man, Movie Wars, Movies as Politics, Greed, Placing Movies, Film: The Front Line 1983, Moving Places) e altri ancora scritti a quattro mani (Movies Mutations con Adrian Martin, Abbas Kiarostami conMehamaz Saeed-Vafa e Midnight Movies con J. Hoberman).

 

[10] Reinhold Adolf Hallman (1893 – 1968) è stato un altro dei personaggi importanti della cultura svedese  della prima metà del novecento: giornalista e scrittore e illustratore di libri (che è poi l’attività che gli ha dato più fama) fra  i quali Les fleurs du mal di Charles Baudelaire e alcuni volumi di Bertil Malmberg e Söderberg.

 

[11] Maria von Platen (1871 – 1959), è indubbiamente un’altra figura centrale della cultura svedese del ‘900. La sua fama la deve però più che altro per i rapporti che ha avuto con alcuni grandi scrittori  del periodo: non solo Söderberg, (col quale, dopo aver lasciato il marito e il figlio affetto da disabilità mentale, ebbe una storia d’amore dal 1902 al 1906, anno in cui lo abbandonò per  il più giovane John Landquist) ma anche Gustaf Hellström e Henning von Melsted.

 

[12] Come ben sappiamo, Dreyer non riuscì a realizzare nessuno dei due progetti. Molti anni dopo la sua morte il  grezzo trattamento da lui fatto (46 cartelle) per Medea sarà ripreso in mano da Lars von Trier e da lui poi portato sullo schermo nel 1988.  

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