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Il fantasma dell'Opera

Regia di Dario Argento vedi scheda film

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FABIO1971

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La recensione su Il fantasma dell'Opera

di FABIO1971
2 stelle

Il fantasma dell'Opera, immortale capolavoro di Gaston Leroux, poeta, romanziere e giornalista parigino, festeggia quest'anno il suo centenario: apparve a febbraio del 1910, pubblicato dalle Edizioni Pierre Lafitte (lo storico editore transalpino che lanciò l'Arsène Lupin di Maurice Leblanc), e già dopo sei anni dall'uscita ottenne la sua prima trasposizione cinematografica, firmata dal regista e coreografo ungherese Ernst Matray (di cui sono andate perdute le copie esistenti). La vicenda, traduzione degli archetipi classici della favola della Bella e la Bestia in una suggestiva miscela di gotico e fantastico, inscriveva i palpiti dell'ossessione amorosa tra lo sfigurato protagonista Erik, il fantasma del titolo, signore di ogni oscuro anfratto del Teatro dell'Opera di Parigi in cui semina il terrore, e la bella Christine, a sua volta amata follemente dall'amico d'infanzia Raoul, che intende salvarla dall'influenza malefica di Erik, nel taglio cronachistico con cui la narrazione si accostava alle movenze più incalzanti e coinvolgenti del romanzo poliziesco. Difficile non rendersi conto, immergendosi in quelle pagine, delle esplosive potenzialità cinematografiche del racconto: l'amore, con le sue passioni folli ed infuocate, il ruolo dell'arte, la morte, il mistero, l'orrore e, dalla rilettura più celebre di Rupert Julian a quella rock di Brian De Palma, il cinema ha, giustamente, sempre rispettato ed esaltato il crescendo di disperazione, il pathos, l'inquietudine e i brividi evocati dalla vicenda. Dario Argento, che già nel decennio precedente, con Opera, aveva scrutato quelle atmosfere, avrebbe potuto trasformare questo Fantasma nel suo capolavoro, nel film della "resurrezione", in una magistrale summa visionaria della profondità del suo sguardo "criminale", palcoscenico profondamente insanguinato per una nuova, sublime danza d'amore e morte. Ed invece qui, di fantasma, c'è soltanto lui, Dario Argento, entità sfuggente di un cinema che non ha più corpo e respiro vitale, inanimata carcassa dispensatrice di brividi ormai perduti nel tempo: Il fantasma dell'Opera, scritto insieme a Gérard Brach, è l'istantanea indifendibile di un fallimento artistico, capace di contendere a Il cartaio la palma di peggiore argenteria di sempre. Al di là delle variazioni apportate alla vicenda originale (con il "mostro", qui interpretato da Julian Sands, non più deturpato nel volto e cresciuto in mezzo ai topi dei sotterranei del teatro), l'adattamento è desolante, un accumulo di stereotipi al servizio di qualche sussulto macabro, l'approccio alle intime tragedie dei personaggi sempre manieristico, atmosfere e tensione appiattite dalle frequenti e grossolane cadute di tono, che congelano sul nascere ogni sporadico brivido che timidamente tenta di scorrere lungo la schiena. Una cifra stilistica deprimente e povera di suggestioni spettacolari veramente genuine, che vira subito nel grottesco aspirando a mantenersi in equilibrio tra ironia e spaventi senza possederne, però, la leggerezza di toni necessaria: pur lasciandosi apprezzare per qualche siparietto kitsch (Degas che dipinge le sue ballerine) o grandguignolesco (il pollice devastato del cacciatore di topi), oltre che per qualche sterile sfoggio di virtuosismo (gli inseguimenti nei sotterranei labirintici del teatro), il film parte già con l'handicap di un prologo eccessivamente sopra le righe, prosegue arrancando tra dialoghi allucinanti per banalità e pressappochismo (con personaggi che, investiti da una folata di vento, esclamano "Accidenti che freddo!"), squassato e martirizzato da un cast di delirante spessore (dal Julian Sands impacciato e monolitico ad un'Asia Argento capace di bucare lo schermo al contrario, servita penosamente da battute che non le si addicono, rendendo siderale la distanza tra semplice improbabilità e ridicolo) e da sequenze di disarmante convenzionalità (su tutte, Sands e Asia sul tetto del teatro, da accapponare la pelle...). Senz'altro professionalmente impeccabili si rivelano la fotografia di Ronnie Taylor, la colonna sonora di Ennio Morricone, gli effetti speciali curati da Sergio Stivaletti, le scenografie (che ricreano nel Teatro dell'Opera di Budapest il corrispettivo parigino) e i costumi: ma sono pur sempre tutti coinvolti in questo scempio e, quindi, ugualmente colpevoli...

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