Regia di Olivier Zabat vedi scheda film
Le voci di dentro. Sono loro a raccontare la storia.
Dialoghi. Copioni. Inventati, eppure reali. Scaturiti dall’inafferrabile dimensione delle idee, e quindi inudibili. Però potenti, tanto da condizionare l’esistenza di chi li ascolta. Basta provare a dar loro una voce umana, scriverli, leggerli, registrarli, per scoprire l’universo segreto che si nasconde nelle anime schiavizzate da tante indefinibili ossessioni. Non si può dire cosa siano, perché la domanda giusta sarebbe chiedere chi siano: personaggi dotati di un nome proprio, attori che affollano il palcoscenico in cui la schizofrenia trasforma il cervello che pensa, che sente, che crea. E che diventa sceneggiatore di se stesso, istrionico interprete delle proprie contraddizioni. Il paradosso logico si scioglie, smette di contorcersi convulsamente su stesso, se il contrasto diventa una lite: lo sdoppiamento separa tesi e antitesi, le fa colloquiare, convertendo l’angoscia dell’assurdo nella metodica ricerca di una soluzione. Il documentario di Olivier Zabat mette il microfono davanti a questi conflitti interiori, che si rivelano in tutta la loro umanità proprio nel momento in cui si articolano in un dramma, una disputa, uno sfogo di odio, un tiro incrociato di accuse, un coro di insulti. Le ombre prendono forma, difendono ragioni, scelgono ruoli e la recita diventa materiale di studio per la psicologia nello stesso istante in cui si riveste della fantasiosa magia della letteratura. Il dolore ha bisogno di un teatro in cui la sua dissennata poesia si lasci vivisezionare: desidera uscire dalle quinte delle mente, per poter conquistare un corpo in cui mostrarsi, esibendo il carnale tormento delle questioni irrisolte, imprigionate nel gioco di echi della nostra finitezza. Per una volta la scatola del cinema, anziché comprimere e sintetizzare la vasta complessità delle storie del mondo, accoglie i suoni provenienti da un universo molto più piccolo, rispetto al quale si propone come uno spazio libero e aperto, in cui ogni essere sotterraneo può finalmente venire alla luce, e trovare aria per respirare. La follia è energia che prorompe dall’interno imparando istantaneamente a parlare, a raccontarsi, a dare origine ad uno spettacolo in cui il nonsense è cronaca, testimonianza diretta di un divenire che nasce come già come parola: un linguaggio che vive di vita propria, esprimendo solo la propria presenza, rifiutando prepotentemente ogni soggezione al significato, alla necessità di mediare o comunicare contenuti predeterminati. La verità, in fondo, è così: si impone senza giustificarsi, senza bisogno di discorsi introduttivi, di presentazioni chiarificatrici. In questa narrazione senza veli, fatta di un testo nudo, partorito adulto e privo di vergogna, sgorgato da un oscuro inferno terrestre, anche loro, i pazzi, si vestono solo della selvatica dignità che accomuna tutti i ribelli senza bandiera. L’abito della festa è un primigenio nulla riempito di rimbombi: musiche che non cercano l’eleganza di una melodia, ma solo la forza di resistere, di continuare, ostinatamente, a ripetere la loro singolare, ritmica, impertinente cadenza.
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