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Dark City

Regia di Alex Proyas vedi scheda film

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George Smiley

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Dark City

di George Smiley
10 stelle

Alex Proyas dirige un thriller fantascientifico a forti tinte dark, creando con successo una dimensione onirica e affascinante in cui Rufus Sewell si aggira smarrito alla ricerca della propria identità perduta. Un film ambizioso che, pur non essendo perfetto, vince la sua sfida e regala al cinema un'altra città maledetta e visionaria.

Ed ecco un altro cult movie fantascientifico degli anni '90: Dark City di Alex Proyas. Il regista australiano di origini greche/egiziane, dopo aver consegnato alla storia del cinema il celeberrimo cine-fumetto "Il Corvo" con Brandon Lee, realizza il suo film più ambizioso, più complicato e più bello, prendendo spunto da film come Metropolis, Blade Runner, Nosferatu e i noir degli anni '40 e creando un connubio perfetto di atmosfere mutuate dall'horror e dalla fantascienza urbana che influenzeranno anche il successivo Matrix (da molti ritenuto un capolavoro e che io considero invece un bluff epocale).

Ci troviamo in una città misteriosa, persa nel tempo e nello spazio, perennemente avvolta in una notte senza fine buia come un sudario, in cui gli abitanti vivono reclusi, impossibilitati a lasciarla per qualche misteriosa ragione, e ogni mezzanotte tutto si ferma, mentre emergono dal loro nascondiglio sotterraneo gli Stranieri, misteriosi alieni con facoltà telecinetiche che, non visti, periodicamente stravolgono la vita degli abitanti cambiando più volte la loro identità per mezzo di un imprinting di memorie al fine dei loro esperimenti. Ciò che vogliono è scoprire cosa ci rende umani e, di conseguenza, unici; toccherà a John Murdoch, risvegliatosi in seguito ad un imprinting non riuscito e completamente privo di memoria, fare luce sul mistero che avvolge i suddetti esseri, i quali sembrano tenere in scacco l'intera città...

Attraversato da potenti soluzioni visive e da un look decadente e futurista, Dark City ci pone uno dei quesiti più dibattuti nella storia della fantascienza: chi siamo noi? Potenzialmente siamo tutti e nessuno, possiamo essere mille persone differenti e risultare al tempo stesso privi di identità. I nostri corpi sono solo dei recipienti per le nostre menti o c'è qualcos'altro che ci anima? Forse una scintilla vitale di provenienza divina? O una combinazione chimica convenzionalmente chiamata anima? Domande senza risposta che si affastellano in questo thriller contaminato dal noir esistenziale. Gli individui appaiono intercambiabili, mossi da un'entità superiore che li governa e li maneggia come un burattinaio con le marionette, senza che esse ne siano al corrente, totalmente ignare di essere le cavie di un gigantesco esperimento che le fa muovere in circolo senza una meta definita, manipolando la loro memoria e ponendo dei paletti alla loro esistenza per evitare che valichino i confini imposti e necessari al mantenimento dell'illusione. Un incubo senza fine si spalanca di fronte agli occhi di John Murdoch, il quale si muove come un fantasma in questo microcosmo fatto su misura per tenere gli umani imprigionati nella loro stessa casa, senza che essi sentano mai la mancanza di un orizzonte da scrutare, di una vista che non sia preclusa da un gigantesco muro, di un'alba dai cui raggi venire lambiti. La notte sembra ingoiare la metropoli, nido di una popolazione di alieni caratterizzati da un'organizzazione gerarchica e da una memoria collettiva che impedisce loro di agire da individui e li condanna all'estinzione a meno di non scoprire il segreto più grande dell'essere umano. Ma per farlo hanno bisogno dell'inganno, di fare in modo che gli ignari oggetti della loro macchinazione inconsapevolmente li aiutino, pertanto cosa c'è di meglio di un'apparente normalità che nasconde un meccanismo di sopraffazione perfetto e puntuale come quello di un orologio? E a proposito di orologio, nemmeno il tempo e lo spazio sono una certezza in questo film: non si sa nè quando nè come gli Stranieri abbiano prelevato dalla Terra la popolazione di Dark City nè vi è modo di farvi ritorno. Da un destino di schiavitù non si può scappare tanto facilmente. Ma nel momento in cui ci svegliamo e inziamo a mettere in dubbio la nostra stessa esistenza e il nostro vissuto, allora c'è ancora speranza di giungere alla verità e di liberarsi dal giogo della vita che ci è stata assegnata.

Visivamente spettacolare, il film di Alex Proyas trae giovamento dalle gargantuesche scenografie di George Liddle e Patrick Tatopoulos, le quali mischiano abilmente stili architettonici di epoche diverse contribuendo alla costruzione di una città fuori da ogni coordinata spazio-temporale, simile a un enorme organismo che rinnova continuamente i propri tessuti mutando forma pedissecuamente al pari dei propri abitanti. Splendido anche il regno sotterraneo degli Stranieri, così come gli effetti speciali per nulla datati che fanno ancora adesso la loro bella figura. La fotografia, ancora una volta di Dariusz Wolski, pennella a meraviglia le tinte dark di un mondo a cui la luce non ha più fatto visita da tempo immemore, con le musiche di Trevor Jones che acuiscono ancora di più il senso di angoscia desiderato dal regista. Ottimo l'effetto retrò dato dai vestiti, dalle abitazioni e dalle vetture, citazionista la scelta di avvolgere gli alieni in grandi cappotti neri come il celebre vampiro del film di Murnau. Ispirata infine la regia del talentuoso Proyas, mai più tornato a questi livelli, con un cast di bravi attori al suo servizio, tra i quali spiccano Kiefer Sutherland e Richard O'Brien, senza nulla togliere a Rufus Sewell, Jennifer Connelly e William Hurt. Se proprio bisogna cercare una pecca, essa risiederebbe soprattutto in alcuni passaggi della sceneggiatura in cui si mette in bocca agli attori dei discorsi anche troppo articolati al fine di non far perdere la bussola della storia allo spettatore, un espediente piuttosto grossolano che però non incide pesantemente sul risultato finale.

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