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Apri gli occhi

Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film

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La recensione su Apri gli occhi

di Aquilant
8 stelle

Il gioco di scatole cinesi si fa duro in “Apri gli occhi”, una storia di (stra)ordinaria follia dove il reale e l’apparenza sono avvinghiati insieme da catene invisibili e flagellati dal vorticoso gorgo dell’inspiegabilità. Qui niente è come sembra perchè ciò che sembra poggia su livelli di veridicità inevitabilmente celati alla percezione umana.
Troppo facile a questo punto parlare di vicenda sospesa tra sogno e realtà, fornendo in tal modo l’idea fuorviante di un rompicapo con il consueto finale a sorpresa che lascia tutti scontenti, ovvero del solito minestrone riscaldato e troppe volte ammannito con sconcertante dilettantismo professionale agli appassionati del genere.
Ma “Apri gli occhi” è qualcosa di più di un insieme di espedienti in cui la realtà del sogno ed il sogno del reale vengono (ab)usati al puro scopo di intorbidire le acque e rinsanguare con trasfusioni d’irrazionale una sequela di storie che, vada come vada, alla resa dei conti finale finiscono col mostrare ignominiosamente la corda. E d’altra parte ogni minimo meccanismo è qui concepito con la funzione ben precisa di mettere continuamente a dura prova la capacità raziocinante dello spettatore, mentre anche il continuo accavallamento di diversi piani del (sur)reale coniugato con una ben precisa discontinuità narrativa studiata con metodo a tavolino porta inevitabilmente alla medesima conclusione.
Per non parlare ovviamente del tessuto narrativo costretto a subire le conseguenze di continui flashback e flashforward legati a situazioni inversamente proporzionali ad una concatenazione logica di causa-effetto, fermo restando che nel tirare le somme alla fine di questa ossessiva sarabanda visiva tutti i pezzi del puzzle finiscono col tornare al loro posto, anche se la scoperta tortuosità della tesi amenabariana finisce per dare il colpo di grazia allo spettatore poso propenso a tener testa a tale inusitato itinerario di passione.
Ma indipendentemente dalla verosimiglianza dell’assunto finale l’opera andrebbe giudicata anche per la sua capacità di restituire in modo perfettamente funzionale una serie di visionarietà definibili come veri e propri distillati del più puro inconscio, rese in maniera lucida ed ispirata, piene di sofferti campi e controcampi dilaniati da crudi contrasti di luce che seminano squarci d’inquietudine tutt’intorno componendo le sequenze in una serie di visioni in cui l’unica certezza rimane la non certezza assoluta.
Al di là della complessità della ragnatela narrativa emerge in maniera netta e decisa un dramma umano di vaste proporzioni, descritto con arrembante cinismo e scrupolosa attenzione ai minimi particolari. E si fa strada a poco a poco il disperato ritratto dell’uomo munito di una doppia maschera di mostruosa desolazione, essere sperduto nei meandri della propria percezione indotta, sul punto di smarrire la sua identità esteriore e costretto di conseguenza a navigare senza precisi punti di riferimento nel regno del rifiuto totale e dell’indifferenza autogestita alla ricerca del minimo appiglio in grado di ricondurre all’incontrario la disumana clessidra del tempo. Sguardo inflessibile di un cinema che si sofferma a contemplare i cocci di un’umanità vogliosa di restituire a sé stessa l’illusione della vita, apertamente trasgressivo nei confronti di una consequenzialità temporale che minaccia di dissolversi nei molteplici recessi dei fotogrammi, scomposta e ricomposta a più riprese fino ad essere ricostruita con una stridente logica che pone le sue basi nella sfera dell’irrazionale imbrigliato nelle condizionanti pastoie della logica raziocinante, costretto di conseguenza ad atteggiarsi a simbolo di una rigorosa realtà. E rimesso alla fine in discussione in una perfetta parvenza di moto perpetuo circolare.

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