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I quattrocento colpi

Regia di François Truffaut vedi scheda film

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La recensione su I quattrocento colpi

di Aquilant
8 stelle

Il ragazzo scruta da dietro le sbarre del furgone cellulare il mondo artefatto di una metropoli notturna distante ed inospitale, solcata da freddi bagliori di automobili, con lo sguardo disilluso di chi si rende conto dell’accidentato percorso del proprio ciclo vitale, da poco iniziato e già irto di difficoltà. Ed anche se la macchina da presa indugia sul suo volto alla ricerca di un’espressione in grado di manifestare un senso interiore di debolezza, il suo sguardo è neutro, impassibile, non tradisce minimamente il suo bisogno d’affetto. E’ lo sguardo di un indomito ribelle che ha perso il primo round con la vita ma non l’intera partita. Ed è questa la sequenza chiave del mitico “400 colpi”, primo capitolo della lunga saga di Antoine Doinel, proiezione cinematografica del regista, magistralmente interpretato nell’arco di vent’anni dal sorprendente Jean-Pierre Léaud, seguito fin dalla sua infanzia dall’instancabile zelo della macchina da presa truffautiana.
Ritratto di un’adolescenza dipinta con disincantata franchezza, a sfondo chiaramente autobiografico, il film è chiaramente ispirato al rosselliniano “Germania anno zero”: due esseri incapaci di confrontarsi con le ipocrisie e le menzogne di un mondo piccolo borghese alle prese con i suoi crescenti malesseri esistenziali. Ma contrariamente al suo coetaneo Edmund, Antoine è dotato di una superiore forza di volontà e di una maggiore determinazione che lo aiuteranno a passare indenne tra le mille difficoltà della vita.
In uno stile asciutto e serrato Truffaut descrive un ambiente giovanile inquieto, eseguendo una vera e propria radiografia di un’adolescenza fuori sintonia con la vita, piena di fremiti di libertà, in aperta ribellione con l’ambiente familiare e col mondo esterno. Il giovane Antoine, alter ego del regista, è inserito in un ambito metropolitano descritto in modo totalmente impersonale, ridotto alla stregua di uno straniante anonimato secondo una visione strettamente oggettiva della realtà. I moti di ribellione del ragazzo sono documentati con freddo realismo, con particolare attenzione alla sua psicologia ma senza particolari moti di empatia e solidarietà da parte del regista che si limita a descrivere e a fornire indicazioni di carattere ambientale, senza addurre alcuna attenuante per un comportamento improntato ad un’aperta ribellione ma analizzando le varie vicissitudini in maniera quasi scientifica, lasciandosi alle spalle il minimo accenno di patetismo. Di notevole impatto visivo appare la sequenza all’interno della caserma, con la macchina da presa impegnata in eleganti panoramiche circolari da sinistra verso destra che descrivono minuziosamente il tetro ambiente della camera di sicurezza che non fa alcuna distinzione tra ladri, prostitute e ragazzi inermi. Nessuna innovazione tecnica viene usata se non nella descrizione delle sequenze all’interno del rotor, una giostra che gira a forte velocità, di sapore prettamente surreale.
Si comprende bene che l’intento è quello di fornire uno spaccato generazionale in cui gli adulti non sono meno colpevole dei ragazzi, vittime entrambi di una società del benessere ancora agli inizi ma che già comincia a mietere vittime, a causa di quel sottile senso di malessere sempre serpeggiante sottopelle sugli strati piccolo borghesi della società.
In definitiva traspare dalla lettura della vicenda un marcato interesse per il mondo dell’adolescenza, reso con tocco lieve e con la consumata perizia di un autore che guarda al passato allo scopo di imbastire una sua recherche personale totalmente disincantata, priva di orpelli vari, ma traboccante di disincantata poesia.

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