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Il coltello nell'acqua

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su Il coltello nell'acqua

di Aquilant
8 stelle

Mentre scorrono i titoli di testa due sagome in primo piano dai visi indefiniti si stagliano sinistramente all'interno di un’automobile che attraversa un mesto viale alberato, accompagnate dal nervoso fraseggio del sassofonista Krzysztof Komeda. Poi la musica s’interrompe di colpo squarciando il velo del buio. Emergono alla luce i volti di Jolanta Umecka e Leon Niemczyk, due sconosciuti interpreti dotati di una forte carica pulsionale che traspare fisiognomicamente dai lineamenti facciali. Il tutto realizzato tramite un unico, lunghissimo piano sequenza che nella sua inquietante enigmaticità già lascia intuire il torbido leit motiv della vicenda.
Successivamente la controversa coppia viene ripresa dai più disparati punti di vista: di spalle, frontalmente ed individualmente in primissimi piani che si alternano rapidamente tra loro, finché un elemento perturbante non viene ad interrompere quello che a prima vista appare più o meno come un esercizio di stile di livello medio alto.
E da questo punto in poi il regista imbastisce un dislocante jeu de massacre psicologico a tre voci e barca solista, descritto con l’ausilio di una fotografia livida ma molto pulita, dai bianchi e neri intensissimi e dalle tonalità intermedie parzialmente sacrificate ad un contrasto talvolta esasperato, specie nelle scene panoramiche immerse nel biancore abbacinante di un orizzonte che si perde in una lontananza a livello d’infinito.
Il largo uso di obiettivi grandangolari garantisce all’autore una visione panoramica quasi illimitata, permettendogli di scavare con estrema libertà nei diversi angoli dell'inquadratura e di osservare i fatti da svariati punti di vista senza spezzare minimamente l’armonia della continuità visiva.
Polanski arriva perfino a porre i suoi personaggi su tre piani prospettici diversi, sempre perfettamente a fuoco, senza mai ricorrere all’uso della focalizzazione funzionale. Crea inoltre una serie di alternanze tra i vari soggetti umani, gratificandoli a turno del primissimo piano e ponendo gli altri due in posizione di sudditanza, quasi a voler seguire il tutto contemporaneamente da tre diversi punti di vista. Determina in tal modo stupefacenti effetti di tridimensionalità grazie ad una serie di sequenze calibrate al millesimo, badando bene a preservare le zone d’ombra ed a mitigare eventuali asprezze stilistiche.
Appaiono a tal punto straordinarie la sensazione di intensa partecipazione emotiva e la padronanza della messinscena che il regista riesce a dimostrare, avvalendosi dell’allestimento di tali composizioni dalla prospettiva molto complessa, dalle destabilizzanti contrapposizioni primo piano/sfondo, frutti di un ben dosato calcolo dell'iperfocale, che non mancano di generare un senso d’inquietudine perenne, conferendo perfino ai gesti ed agli atteggiamenti più banali un alone di drammaticità a tratti insostenibile, con nessi di causa-effetto sempre sul filo imprevedibile di una calcolata (ir)risoluzione. La tensione del film è comunque tutta psicologica e pur se avviata spesso al massimo grado visivo, è tenuta sempre sotto il dovuto controllo, raffreddata adeguatamente ogni qualvolta minaccia di lambire un punto di non ritorno e pilotare la storia verso indesiderate secche narrative in grado di inficiare la natura insolubile del conflitto di partenza.
Contano poco o niente invece le parole. E viene conferita un’importanza fondamentale ai gesti ed agli atteggiamenti più banali, al gioco zizzanioso degli sguardi, talvolta taglienti, talvolta inquisitori, il più delle volte sfuggenti, ben più eloquenti di una calcolata sventagliata di parole. Ed è significativo il linguaggio interiore dei corpi, che assumono di volta in volta accezioni diverse a seconda della loro postura. Il tutto opportunamente condito da zigzaganti assoli di sax che tramite l’ariosità di torrenziali note a cascata fungono da contrappunto sonoro ad un andamento filmico dalle connotazioni a tratti claustrofobiche.
Tanto per complicare la situazione Polanski non ama affatto tenersi in disparte ed è anzi da considerare come un ulteriore elemento perturbante della storia, risoluto a porre tutto il suo peso sulla bilancia, pronto con la sua mdp spesso manovrata manualmente a documentare con fare destabilizzante umori e malumori dell’estemporaneo terzetto. Viene recitato in tal modo un canovaccio passibile di sfociare in mano ad un altro regista meno dotato in una specie di documentario pseudoamatoriale sulle gioie e dolori di una gita in barca con un incomodo di troppo (non a caso Polanski usa in un’intervista il termine “bovine”, vale a dire "ottusa", nei confronti di Jolanta Umecka, incanalando la presunta passività attitudinale della donna in direzione di una performance scenica tutta basata sulla sottrazione, in una felice quanto catalizzante contrapposizione rispetto all’aggressività dei due partner maschili).
Ma nonostante il ribollente agitarsi in profondità della materia, la storia assume a tratti dei risvolti minimali, laddove il puro gusto del racconto per il racconto finisce con l’invadere l’intera scrittura e fa sì che il non evolversi della trama in una qualsiasi direzione dettata da una frettolosa convenzionalità possa costituire il vero baricentro dell’attenzione e di conseguenza il reale motivo d’interesse per lo spettatore. Una felicità espressiva in seguito smarrita per strada ed incanalata in direzione di uno straniante parapsicologismo suburbano e faticosamente recuperata a partire dalla “morte e la fanciulla”. In definitiva un’opera imponente nella sua apparente semplicità, da annoverare senza tema di smentita tra i (grandi) capolavori del cinema.





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