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Lo strangolatore di Boston

Regia di Richard Fleischer vedi scheda film

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La recensione su Lo strangolatore di Boston

di Kurtisonic
6 stelle
Tratto da un fatto di cronaca, Lo strangolatore di Boston in parte si adegua a quella nuova tendenza del cinema americano di fine anni 60 di voler trarre dalla strada la sua ispirazione, per mettere in luce gli aspetti più oscuri della società, ma che in fondo contiene anche diversi elementi che una lettura morale confinerebbe verso un cinema ancora molto orientato al classico. Il suo autore R.Fleisher dopo essersi fatto precocemente le ossa negli studios è cresciuto attraverso i suoi lavori, in particolare di genere poliziesco e avventuroso, da Sabato tragico al più conosciuto Frenesia di un delitto (con O.Welles premiato a Cannes) fino agli albori degli anni settanta dove ceduto il passo agli apologhi del nuovo cinema si è indirizzato verso contenuti che privilegiano maggiormente lo spettacolo di richiamo secondo schemi meno intricati. Da Welles a Schwarzenegger (Conan il distruttore 1984) il salto è notevole. La doppia anima del film si manifesta secondo modalità diverse: prima parte d’impianto classico, seguita da una più introspettiva, gestione simbolica e moralistica dei personaggi che descrive una società in ebollizione ma anche tenuta sotto controllo assai bene, immagini moltiplicate creativamente dallo split screen che a volte risultano pertinenti alternate a momenti affatto indispensabili. Allo stesso modo la doppia personalità del protagonista, interpretato da un ottimo T. Curtis, indurrebbe al raffronto parallelo con la società opulenta e malata che genera mostri inconsapevoli (ma quanto poi..) al suo interno, indirizzando provocatoriamente il giudizio dello spettatore verso una posizione più indulgente nei suoi confronti. Crisi dei valori e perdita delle certezze dell’uomo comune, acuite dall’assassinio di JFK che viene espressamente mostrato, fanno di Lo strangolatore di Boston una messa a fuoco fuori campo di quel particolare momento storico disorientante, che prende forma attraverso una sindrome dissociativa del protagonista. Dal lavoro di traduzione dal crudo fatto di cronaca dove un operaio, Albert De Salvo uccise in poco tempo una dozzina di donne facendo leva sul suo aspetto anonimo e rassicurante, il regista cerca di personalizzare un racconto, di lasciare quel segno più marcato che contraddistinguerebbe quel cinema dell’epoca in piena evoluzione. Se come detto la parte riguardante l’entrata in scena del personaggio dello strangolatore si apprezza per la capacità di messa al centro dell’attenzione di un protagonista tanto malsano e negativo la cui metamorfosi sofferta riesce a far percepire un disagio profondo immerso in una nuova realtà sociale sempre più sfuggente, sono invece i cardini di contenimento, la cornice che difetta di un più marcato segno di riconoscimento. Intanto la vicenda nella prima parte domina il racconto sovrastando qualsiasi personaggio che viene ridotto a semplice figurante, il soggetto cioè l’azione delittuosa che peraltro non si vede mai direttamente è centrale, legato secondo l’ottica narrativa tradizionale ai ruoli “istituzionali” che gli ruotano intorno. Le famiglie perbene, tendenti ai valori borghesi, l’ingenuità delle vittime adescate con facilità come se un generico profilo psicologico femminile fosse estensibile a tutto il genere improntato ad abbandonarsi di fronte a qualche attenzione manifestata dal maschio, (ma De Salvo non si pone da cascamorto ma come imbianchino, elettricista o idraulico condominiale), la polizia onestamente protesa ad indagare neanche troppo convintamente ma assai lontana da quegli aspetti di corruzione e di inaffidabilità che nel decennio a seguire ne cancelleranno la funzione eroica, l’identificazione quasi simile ad un rastrellamento dei sospetti, cioè delle parti marce della comunità, (e quest’ultimo particolare è determinante nella sua duplice veste ideologica, cioè di pregiudizio morale e critico verso qualsiasi diversità, ma anche di asservimento alla funzione ordinatrice e tranquillizzante della legge e della giustizia che alla fine determina il significato del film stesso), la componente medico psichiatrica rispettosa dei diritti civili e del paziente De Salvo mettendo davanti a tutto la sua condizione di malato mentale. Sembra che Fleisher dopo avere preannunciato una epidemia sociale maligna, si abbandoni non verso una riflessione sui mali dell’individuo avulso dalla massificazione dei desideri e dalla perdita della personalità estensibile a diversi strati sociali, ma che infondo lo emargini come un isolato soggetto diverso dagli altri, contenuto all’interno della collettività che è in grado di trovare meccanismi risolutori e pacificatori. Edificante l’esempio del comportamento del vice procuratore interpretato da un bravo H.Fonda disposto a fargli tirare fuori la verità non tanto per accusarlo pubblicamente ma per avere la certezza di avere sottomano il responsabile degli omicidi.

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