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Rapacità

Regia di Erich von Stroheim vedi scheda film

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La recensione su Rapacità

di spopola
10 stelle

Greed conserva ancora intatta tutta la sua incomparabile, intensa drammaticità, oltre al fascino un po’ “mefitico” di una condizione inquietantemente ossessiva, il che ci consente di continuare ad intravedere ed immaginare, nonostante gli scempi e le mutilazioni che ha dovuto sopportare, quale opera appassionata e vigorosa fosse in origine.

Greed (Rapacità) è  indubbiamente il risultato più  importante e straordinario del percorso artistico di Erich von Stroheim, il primo vero, grande regista “maledetto” della storia del cinema, colui che più di ogni altro ha subito l’ostracismo di una miopia congenita che ha fatto di tutto per oscurare e renderne quasi impossibile la riconoscibilità del suo genio superlativo. La sua storia, è una storia di frustrazioni, di lotte, di incomprensioni, di scontri col melenso, stupido commercialismo dei produttori meschini e disinteressati alle esigenze dell’arte: almeno per due terzi, la sua produzione è stata manomessa da sceneggiatori e montatori agli ordini di finanziatori cinici e dissennati, così che spesso noi siamo “costretti” a confrontarci soltanto con ciò che  è rimasto, o meglio che si è salvato nonostante tutto, visto che Hollywood lo ha ostacolato in ogni modo, non riuscendo però  ad impedirgli di assurgere al ruolo di “maestro indiscusso” della settima arte, e di venire considerato e venerato come uno dei maggiori cineasti del cinema mondiale di tutti i tempi, perchè quel che ci è stato tramandato, pur incompleto, è materiale davvero sufficiente per farcene comprendere appieno l’inventiva innovativa, il peso avveniristico del  suo lavoro e la creatività assoluta dell’ispirazione che lo ha accompagnato e sorretto anche in imprese titaniche come può essere considerata quella che riguarda appunto questa pellicola, imprescindibile per inquadrare veramente la poetica, ed anche – diciamolo pure – “la presunzione” autoriale di un regista e un uomo davvero al di fuori di ogni schema.

 

Il “gigantesco” Greed  (nove ore di durata, l’opera effettivamente concepita dal regista che non potremo mai percepire nella sua immensa, monumentale “grandezza”), al di là delle sue qualità davvero eccezionali, è dunque anche il titolo che meglio di ogni altro ci consente di ricostruire la  mentalità del regista e di affrontare “seriamente” un discorso sulla coerenza del sul suo atteggiamento tematico che trova qui la sua summa più completa e convincente. Non va dimenticato per altro – e non è secondaria considerazione - che  questa è anche l’unica opera di cui lui abbia rivendicato “in pieno” la paternità: Io ritengo di aver fatto soltanto un film, ma un grande film, in tutta la mia vita, e nessuno l’ha visto. Gli avanzi di quel film, tagliuzzati, passano sotto il nome di “Greed”  (citazione autografa riportata da Fabio Rinaudo nell’articolo “Foyer: Erich Oswald Hans Carl Marie Stroheim von Nordenwal”, pibblicato in “Cronache del cinema e della televisione”, Roma, estate 1957, pagina 136).

Con questo ovviamente non intendo affermare che Stroheim si identifica “esclusivamente” con Greed (ci mancherebbe altro!!!),  ma sottolineare al contrario che è il titolo “obbligato”, la conditio sine qua non  per tentare di iniziare e portare avanti quello studio valutativo a cui accennavo sopra, sul contributo complessivo che ha dato, per esempio nella evoluzione del linguaggio cinematografico, e ricostruire davvero con completezza la continuità omogenea di un’idea che è comunque riuscito a sviluppare attraverso il suo lavoro, che è poi il concetto “fondante” su cui si poggia una ricerca e una modalità capace di sfidare il sistema, rimanendo comunque “vincitore”, pur essendo costretto a soccombere alle sue regole implacabili.

Parliamo allora di Greed, basandoci però sempre e solo (purtroppo) su quei “ritagli” che ci sono pervenuti, poiché a nulla sono valsi i tentativi ricostruttivi fatti (mi sembra nel 1999) recuperando una parte consistente delle foto di scena,  per rappresentare e “reintegrare” in qualche modo  il materiale irrimediabilmente e colpevolmente perduto, capaci semmai di fornirci (con le  4 opere di durata raggiunte ancora estremamente deficitarie, “lontane” e inadeguate per fare davvero “giustizia” anche a causa della insopportabile staticità dei “ritratti” inanimati che sostituiscono il girato) solo una “pallida” traccia (meglio che niente, naturalmente) della opulenza grandiosa dell’originale, che ci fa semmai ancor più inorridire per l’imperdonabile misfatto perpetrato.

Il Greed a cui  dobbiamo necessariamente riferirci, ha dunque le sembianze di un gigante mutilato del quale si può solo immaginare la stratosferica statura, visto che è una di quelle sfortunate pellicole che hanno subito l’infausta sorte di essere andate praticamente distrutte prima ancora di aver visto la luce (a Stroheim sarebbe per altro accaduto di nuovo con Walking Down Broadway girato fra il ’32 e il ’33, che può considerarsi il suo unico esperimento sonoro,  giudicato dalla Fox  impresentabile al pubblico per il suo crudo e sgradevole realismo, che lo esautorò per questo, affidando tutto il materiale da lui già girato, ad Alfred Werker affinché lo riaggiustasse, che non si limitò però “semplicemente” a rimaneggiarlo un poco come gli era stato richiesto, ma lo rifece parzialmente, cosicché alla fine il film che ne uscì fuori e fu effettivamente distribuito, dal titolo Hello, Sister! non aveva davvero più nulla da spartire con l’idea originaria concepita dal regista).

E Greed è  rimasto così anche il suo unico film (vista l’analoga analoga sorte toccata all’atro titolo sopra citato che intendeva percorrere sentieri affini) sull’America degli albori del novecento. Una pellicola dunque percorsa e vivificata da una polemica nuova, aspra e sgradevole, come – e forse ancor più – il sanguigno romanzo da cui è derivato (il notevolissimo e “dimenticato” Mc Teague di Benjamin Franklin Norris [1870-1902] considerato con Stephen Crane e Theodor Dreiser, uno dei più significativi esponenti della letteratura naturalista americana)  opera altrettanto cruda e “documentale” che già alla sua uscita nelle librerie aveva provocato una incredibile tempesta di  proteste e critiche da parte del puritanesimo borghese della nazione, e che rimane una delle più autentiche testimonianze del degrado sociale, con il suo spoglio realismo psicologico, di un’America amara, percorsa e dominata da folli inibizioni, torbidi egoismi e da malsana devozione al denaro e all’oro, tutte cause fra loro strettamente connesse, che provocheranno, determinandola, la tragica distruzione dei protagonisti. Un affresco un po’ fatalista di una umanità sordida e pervertita, dunque, irretita da una ossessiva ed insaziabile sete di denaro, composta di emigranti tedeschi, irlandesi e polacchi,  che sono poi una parte importante di quei popoli che costituiranno la base “sociale” degli States della contemporaneità.

Romanzo complesso e “sinfonico” di implicite ambizioni sociologiche allora quello che sta alla base della ricostruzione in immagini pensata dal regista.

Secondo quanto ha osservato e lasciato scritto Lotte Eisner,  Stroheim  però pur rispettando  il contesto, non stato è per nulla naturalista alla maniera zoliana (che era il prioritario riferimento letterario di Norris): realista e visionario a un tempo,  il film descrive semmai le brutture della vita (…) avvicinandosi al Goya dei “Disastri della guerra”.

Per un raffronto tra l’opera narrativa e l’opera cinematografica, resta per altro agli studiosi proprio la copia del romanzo con a margine le numerosissime annotazioni fatte da Stroheim stesso e le frequenti sottolineature con inchiostro rosso di interi periodi e di frasi, che si ritroveranno poi “integralmente inserite” nella sceneggiatura originale pubblicata dalla Cinémathèque de Belgique (Bruxelles, 1958).

La prima impressione che si avverte dalla lettura  dello scenario integrale (che prescinde cioè dai tagli che prima Rex Ingram, autorizzato dallo stesso regista, e poi la M.G.M, arbitrariamente, inflissero al film), è che seppure trattato in maniera diversa, niente  era scomparso del naturalismo originario e che le tracce “zoliane” tendevano semmai a trasfigurarsi in una loro visionarietà più crudele ed enigmatica.

Stroheim dunque, dimostrava in ogni caso di aver ben assimilato il clima americano del periodo, e sopratutttodi avere colto, adottando adeguate soluzioni di linguaggio di notevole forza espressiva e sorprendete intuizione introspettiva, la sporca autenticità della vita gretta e meschina di città come Oakland e San Francisco, costruendoci sopra con una spaventosa,  un po’ allucinante freneticità, il dramma anche morale di Mc Teague e di Marcus Schouler nell’infernale Death Valley, perché al centro della storia, soprattutto dopo le epurazioni fatte, restano soprattutto  tre ritratti nitidi e spietati, quello dell’ottusa brutalità di Mc Teague, della spaventosa introversione di Trina,  e quello dell’odio forsennato di Marcus, che solo un visionario come il misantropo Stroheim  poteva rappresentare con tanta efficacia, toccando punte di allucinata  tragicità, senza correre il rischio di  precipitare nel melodramma e nel ridicolo in quel finale disperato  e convulso che  risulta ancora oggi a tutti gli effetti, straziante e “memorabile”, capace di incidere prepotentemente sulla emozionalità viscerale dello spettatore.

 

Ma per parlare dl “quel”  Greed che ci rimane, occorre prima definire le differenze sostanziali che si riscontrano tra lo scenario originale e la versione commerciale del film, licenziata dalla Metro-Goldwyn-Maayer,  utilizzando – per chiarire meglio proprio il problema filologico, i dati forniti da Lotte H. Eisner, che ha compilato a suo tempo una tavola sinottica in cui vengono messi a raffronto il romanzo, la sceneggiatura originale e la versione commerciale del film (Gaetano Strazzulla su “Civiltà dell’immagine” – agosto 1966).

Si rileverà così (l’integrazione fotografica del 1999 ha ovviamente in parte provveduto ad aggiustare l’anomalia ma non a risolvere il problema) che manca prima di tutto la funzionalità essenziale di due episodi paralleli che facevano da contrappunto alle vicende centrali di Mc Teague e Trina Sieppe. Il primo episodio scomparso, è quello della relazione tra Maria Macaca e il rigattiere ebreo Zerkow (nell’edizione commerciale, la donna appare solo marginalmente come la sciatta cameriera che vende a Trina il biglietto della lotteria  che sarà poi all’origine dei dolorosi fatti che la porteranno al progressivo mutarsi dell’avarizia in follia); il secondo, ugualmente soppresso, è quello dell’idillio tra due attempati vecchietti (Old Grannis e Miss Baker) che sboccia nella casa dov’è il Dental Partors di Mc Teague e dove inizia a corrompersi la sua unione con Trina, dopo che la donna ha subito lo shock della prima notte di nozze quando, dopo una brevissima lotta, cederà al desiderio di essere conquistata e sottomessa rudemente dal bovino marito.

Ma non sono evidentemente solo queste le scene scomparse (l’abissale differenza della durata lo testimonia ampiamente). Fra le più significative, ci sono quelle che riguardano la lenta trasformazione di Trina da timida moglie affettuosa e innamorata ad aggressiva megera e quelle che raccontano il tracollo morale di Mc Teague durante la sua fuga nella Death Valley, prima che venga raggiunto da Marcus. Manca persino la terribile scena del delirium tremens del padre di Mc Teague, alcolizzato cronico che vede uscire una lunga serpe dalle bottiglie di whisky che ha davanti, oltre che e quelle analogamente importanti della famiglia Sieppe con i genitori e le sorelle dell’avara Trina costretti ad abbandonare la casa dove abitano perché la donna non invia più loro il denaro necessario per pagarla.

Sono inoltre scomparsi dei personaggi che, per quanto abbastanza marginali, acquisivano invece nel contesto complessivo del film, un significato funzionale davvero essenziale per definire l’evoluzione cronologica e psicologica del racconto e per lo studio introspettivo dei sentimenti che cominciano lentamente a  sbriciolarsi al contatto col mondo esterno e sotto l’acuirsi della bramosia dell’oro, così da rendere molto più confusi  gli scavi drammatici delle fisionomie che ci rimangono.

Ma i tagli forse più “dolorosi” e incredibili, sono quelli che riguardano le sequenze che vanno dalla morte di Trina all’arrivo di Mc Teague nella Death Valley, con il vagabondare ozioso di quest’ultimo per le strade di San Francisco e il suo ritorno a fare il minatore nella Big Dipper Mine.

 

Il film così come oggi ci resta (ricostruzione con inserti fotografici a parte, che può solo fornirci una traccia abbastanza filologica ma approssimativa delle proporzioni primarie del racconto cinematografico, visto che delle quarantadue bobine iniziali, ridotte a ventiquattro dallo stesso regista, se ne sono poi salvate soltanto dieci) presenta inevitabilmente molti lati oscuri proprio nel procedere della storia e degli eventi. Appare per esempio un po’ nebuloso e poco connotato il lento, quotidiano inesorabile declino economico e morale dei due protagonisti, vittime della loro atavica natura di esseri “inferiori”, più che dall’onnipotenza del fato, ma sono elementi che non ne intaccano la grandezza, perché anche così rimaneggiato da mani sacrileghe e incompetenti e nonostante gli scompensi, Greed  conserva ancora tutta la sua incomparabile, intensa drammaticità, oltre che il fascino un po’ “mefitico” di una condizione  inquietantemente ossessiva, il che ci consente di continuare ad intravedere  ed immaginare quale opera appassionata e vigorosa fosse in origine: eloquente per il rigore della sua concezione, per la ferocia della sua critica etica e sociale, e per la sua solida struttura narrativa, anche se il suo autore non fu mai dello stesso avviso: il vederlo, fu per me qualcosa come l’esumazione di un cadavere: ho trovato in una piccola bara  molta polvere, un puzzo terribile e un osso della spalla  (dichiarazione rilasciata dopo aver visto la versione mutilata che accettò di “verificare” solo nel 1950 per le ripetute insistenze di Henri Langlois, scoppiando in un pianto dirotto al termine della proiezione).

Il Jacobs ne L’avventurosa storia del cinema americano, Einaudi editore, afferma che il montaggio, eseguito da altra persona, non ha danneggiato l’opera, ma solo perché i film di Stroheim non sono immaginati e realizzati in funzione del montaggio, ma nell’accumularsi dei dettagli nell’ambito delle scene e dei singoli fotogrammi. E lavorando all’interno delle scene, il regista raggiunge proprio lo stesso effetto qualitativo del risultato che altri al suo posto avrebbero raggiunto con l’ausilio del montaggio. Il suo soggetto e la sua sceneggiatura erano dunque tutti entro i limiti di un’inquadratura e non avevano bisogno di altro per acquisire significato. Dettagli, azione e commento venivano da lui scelti e portati entro il raggio della macchina da presa senza passare da una inquadratura all’altra.

Possiamo allora sostener senza ombra di dubbio che Stroheim operò il montaggio non delle inquadrature, ma nelle inquadrature. Ovviamente non dobbiamo farci disorientare dal fatto che il risultato finale risulta fortemente sbilanciato e non è più un fedele e attendibile testimone, poichè  per rendere comprensibili i fatti dopo le incursioni censorie della produzione, l’unitarietà dell’intensità drammatica che il regista aveva inteso raggiungere attraverso un calcolato e incisivo ritmo delle immagini con una  precisa caratterizzazione ambientale e psicologica dei personaggi, viene ad essere infranta dall’eccessivo uso delle didascalie “pedantemente letterarie” inserite per colmare i “buchi” che ne sporcano la compattezza strutturale.

Se si analizza il percorso artistico del regista precedente a Greed, si dovrà anche evidenziare che un’altra novità fondamentale è che Stroheim con quest’opera, si allontana  da quel mondo che fino ad allora sembrava specifico (e inscindibile) della sua arte, il mondo erotico e raffinatamente corrotto delle caste militari, tanto per intenderci,  per accostarsi  invece – come si è visto - a una condizione umana aberrata dal denaro e fornirci cosi un inedito studio sociologico che mette a nudo le tare che si annidano in un intero ceto sociale, quello degli squallidi quartieri popolari delle grandi città americane degli inizi del secolo scorso

Nel film confluiscono dunque il beffardo sarcasmo, la feroce satira e l’angosciosa tragedia con i quali il regista comunica la sua amarezza verso la  disgustosa voluttà che mina dal profondo i sentimenti umani. Il cinismo, la crudeltà, la degradazione, la follia (in una sola parola la rapacità umana) incarnata dai suoi personaggi e sui quali egli stesso si proietta con una sorta di aggressiva compiacenza, per gridare in faccia al mondo intero il suo disgusto senza parafrasi e sottintesi, ma utilizzando soprattutto la forza travolgente del suo sguardo,  sono gli elementi determinanti che ne fanno il capolavoro indiscusso che (non) è arrivato fino a noi.

Il film si innalza quindi a condanna morale per quel suo insistere nella visione, mai gratuita (in Stroheim nessuna inquadratura, nessun dettaglio è inessenziale) di ambienti sudici e soffocanti, di personaggi abbrutiti da malsane passioni e da vizi inconfessabili che nella loro disperata umiliazione, sembrano tesi nella ricerca  di un dostoewskiano appagamento.

Stroheim ha il merito di averci dato quindi per primo e in assoluto anticipo sui tempi, una rappresentazione naturalistica della città americana degli inizi del novecento. La miseria che ci rappresenta però non è mai né pittoresca né romantica, ma dolorosa e grigia come l’esistenza degli “ultimi”, quella che preannuncia cioè il pericoloso precipitare in una inevitabile degradazione sociale. Nella storia del cinema di quegli anni - credo di poter affermare senza ombra di dubbio – nessun altro era stato capace di rappresentare con analoga chiarezza e schiettezza, oltre che con la potente violenza della “vita reale”, ricorrendo alla truculenza visionaria di atroci sequenze che fanno coesistere fra loro  scene di efferati delitti e momenti più commoventi  che preludono però a orride discese nella psicosi, stati morbosi e macabre circostanze, le contraddizioni e i problemi di quella realtà sociale in disfacimento.

Greed resta quindi, anche semplicemente documentato da quei pochi “ritagli” residui, un dramma di estrema potenza e un’opera chiave nella storia del cinema per molti versi ineguagliabile, per quel suo essere un  penetrante affresco non solo della società americana, ma anche della natura umana. Il regista usa tutti i  mezzi espressivi a disposizione, inventandone di nuovi e inediti – dalla ricerca maniacale dei luoghi autentici, al simbolismo delle immagini; dalla durata reale dell’azione al raddoppiamento, all’iterazione, alla fissità dei primi piani – allo scopo di mostrare una “realistica” dimensione della vita  corrispondente a quella veramente vissuta dagli uomini, aspra, nuda, disperata e fatale (e il denaro, l’invidia, l’amore, la quotidianità di vite piccole e meschine, emergono con una forza che per quei tempi dovette essere  da verro quasi intollerabile).

Le sequenze finali girate negli ambienti naturali (insolita procedura per quell’epoca, dove tutto veniva invece ricostruito in studio) sono atroci e brutali, di una violenza eccezionale e di un forte impatto simbolico.

Altri momenti fondamentali dell’opera sono quello in cui Mc Teague addormenta Trina per curarle un dente  cariato, ma non resiste poi al desiderio di baciarla; il pranzo con Marcus in un ristorante in riva al mare; il matrimonio nell’appartamento mentre un carro funebre passa per la strada; la bevuta che segue alla cerimonia e la sinistra notte di nozze; Trina che non pensa ormai ad altro che ai 5.000 dollari-oro vinti alla lotteria; la denuncia di Marcus che impedisce a Mc Teague di continuare a fare il dentista poiché non ha il diploma; il marito, diventato vagabondo, che annusa con disgusto la carne putrefatta che gli serve la moglie e che poi la batte per farsi dare qualche soldo con cui andare a bere; Trina sola che tira fuori di sotto il materasso le monete d’oro che si fa poi scorrere sul corpo nudo; il sordido assassinio di Trina nella casa in cui va a fare le pulizie; Marcus che insegue Mc Teague nel deserto, lo arresta e ne è ucciso.

Chiudiamo allora  - come ci ricorda Sadoul, con ciò che scrisse Marcel Defosse (Denis Marion) dopo la prima proiezione del film in Francia nel 1926.: Tutto qui, uomini e cose, è stato segnato dalla vita, in modo profondo e sempre diverso: la sveglia come il pastore, il dentista come i suoi pappagalli. Anche le comparse più insignificanti hanno una sagoma, ridotta a volte a un solo particolare, ma sempre viva in modo aggressivo: la testa scapigliata della domestica, i baffi di taglio militare del padre, il sorriso stupido della sorella. Nei personaggi principali poi non troviamo soltanto la caricatura di qualcosa di ridicolo: la loro anima complessa si riflette pressoché completa nel loro aspetto,e  ciò che romanzieri come Balzac hanno tentato di fare attraverso minuziose descrizioni, si trova qui realizzato con l’immediatezza visiva dell’immagine. Pensiamo a Mc Teague e alla sua corona di capelli crespi, al grande cappello nero di sua moglie, al tic del dito posato sulle labbra, ai vestiti e alla biancheria variopinta del cugino Marcus: e subito ci appare  la figura morale di questi personaggi: ostinazione candida e feroce, avarizia implacabile, falsa bonarietà. Questo quadro materiale dell’anima umana prima d’allora aveva potuto darcelo soltanto la pittura (e forse il teatro). Il film sembra in grado di darcelo e forse con maggior perfezione. E questa triplice decadenza provocata dall’amore dell’oro è descritta con un’amarezza e una crudeltà  di cui soltanto i libri più disperati scritti dagli slavi possono darci un esempio. Nessuna magniloquenza. Nessuno di quegli effetti di cui sono pieni i romanzi a tesi. All’autore basta descrivere per giudicare. Ci mostra minuziosamente le pieghe e gli angoli di questa sentina d’inferno, e  sta a noi scoprirne la direzione.  

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