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Rapacità

Regia di Erich von Stroheim vedi scheda film

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La recensione su Rapacità

di Aquilant
8 stelle

Non a caso le prime inquadrature pongono in evidenza un paio di mani che frugano avide nella penombra di cunicoli sotterranei cosparsi di uomini di fatica intenti a scavare incessantemente alla ricerca dell’oro, oggetto della loro dannazione, prezioso metallo strappato con immane fatica alle viscere della terra e promosso a dominatore assoluto del mondo. GREED, opera intrisa di debordante realismo ed eletta a casistica dei vizi che governano l’esistenza umana, proiezione della giovinezza turbolenta dell’autore e dell’angoscia interiore che ha percorso l’intero l’arco della sua esistenza. Da intendere principalmente come una scarnificante metafora della bramosia umana ammantata di una deviante febbre distruttrice ed incamminata in direzione di una catastrofe annunciata che lascia presagire vampate di autodistruzione e di morte. La realtà vivisezionata con occhio febbrile ed evidente compiacimento dal regista che scava in profondità nella psiche dei personaggi manovrati come burattini senza fili è quanto di più inquietante possa mai concepire la mente umana. Esaltazione dei peggiori istinti sanguinari dell’uomo. Concezione del male come marchio di intere generazioni che si fa strada tramite la trasmissione da padre in figlio.
Assolutamente sconsolatorio risulta il quadro umano della situazione, sintomatico di una grettezza pronta a degenerare all’improvviso, con l’innesco di un processo irreversibile che porta l’uomo a calpestare ogni vincolo di amicizia in nome di una cupidigia ed una bramosia incontrollabili. Emerge quindi una concezione oltremodo pessimistica della vita che sfocia nella visione di un mondo dominato da potenziali istinti bestiali che prima o poi vengono sempre a galla (l’avarizia di Trina, l’avidità di Marcus, la follia omicida di McTeague). Il compito di esternare i più torbidi sentimenti dell’animo umano è affidato alle espressioni facciali, assurte a specchi rivelatori di una morbosità celata dietro il fragile paravento della rispettabilità borghese, in una febbre di autodistruzione che si agita e ribolle per venire a galla, smascherando implacabilmente ogni mistificante atteggiamento esteriore. Sintomatico a questo proposito appare l’episodio del pranzo di nozze, con i volti dei commensali orribilmente contratti nell’atto di trangugiare avidamente il cibo. Il regista non perde occasione di mettere fisiognomicamente in luce le parvenze spettrali dei personaggi, evidenziando la mostruosità dei volti illuminati con forti contrasti di illuminazione atti ad illividirne i lineamenti e ponendo bene in evidenza una nutrita gamma di espressioni ai limiti del demoniaco con occhi sbarrati e pugni che si chiudono. Notevole è l’analogia che copre in parallelo l’arco completo dell’opera tra il crescendo parossistico della relazione tra i due protagonisti e la coppia di canarini in gabbia che ne seguono passo passo le loro vicissitudini.






















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