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Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Regia di Elio Petri vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

di spopola
10 stelle

Pur rimanendo nella tradizione del genere thrilling, le soluzioni adottate da Petri sono innovative e sconvolgenti, rese originali dal taglio kafkiano del grottesco, che si tinge di inquiete venature disturbanti. Lo si potrebbe dunque definire un beffardo e un po’ surreale diario di uno schizofrenico che un immenso Volontè rende indimenticabile.

Sono ormai passati ben 40 anni da quando questo film arrivò sui nostri schermi per “turbarci le coscienze” e indurci a riflettere sui “mali” e i malesseri della nostra società (ma anche individuali, ovviamente)  che purtroppo (per noi) si sono nel frattempo ulteriormente aggravati, e hanno assunto forme ancor più aggrovigliate e contorte, così ambigue e sfuggenti, da  risultare persino  difficilmente diagnosticabili (e diventate  di conseguenza “endemicamente incurabili”). Per comprendere appieno la drammaticità del presente infatti, basta osservare con adeguato spirito critico come si sono evolute le cose, facendo diventare realtà molte delle inquietanti ipotesi espresse dal film di Petri,  più o meno nell’indifferenza “compiacente” di una sempre più larga maggioranza di persone che hanno scelto il quieto vivere del politicamente corretto senza rendersi conto che la melma ci sta sommergendo e che a breve, andando di questo passo, non avremo altri appigli per “difenderci” e restare a galla.
40 anni sono tanti, ma il film che nel frattempo è diventato un vero e proprio “cult”, non ha perso ovviamente nulla della sua carica provocatoria, o dell’incisività rabbiosa di una “denuncia” così definitivamente inappellabile da renderlo un “classico”  senza tempo, e purtroppo anche  profetico col suo pessimistico finale.
Probabilmente, tutto ciò che su questo apologo disturbante c’era da dire, è già stato detto – nel bene e nel male, perché non sono mancati nemmeno i detrattori  più o meno “in buona fede”, come sempre accade soprattutto di fronte ad opere “problematicamente” impegnate come questa  - e anche recentemente, c’è stato il contributo importante  dell’ottima recensione a firma di Stuntman Miglio che immediatamente mi precede, sufficiente da sola per come è stata articolata, a poter far considerare chiuso l’argomento senza altro dover aggiungere.
Può allora risultare persino un po’ pleonastico un ulteriore mio intervento che, al di la di quanto può valere in sé e per se, riuscirà forse solo a confermare, magari accentuandone alcuni aspetti, le  opinioni  già espresse, dichiarate e ratificate, ma non mi lascio scoraggiare dal pericolo di una possibile ripetitività, proprio per la necessità impellente che avverto di parlarne a mia volta, e che mi induce a “ritornare prepotentemente sull’argomento” perchè è importante mantenere desta l’attenzione su questa “indispensabile” lezione non solo di cinema.
La tentazione alla quel forse è opportuno sottrarsi, è allora semmai quella di abbandonarsi alla pur lecita esegesi dei “verdetti” già pronunciati (li posso definire cosi?), un rischio che esiste sempre quando si affrontano titoli importanti a così tanta distanza di tempo e dei quali di solito rimane probabilmente ben poco (di nuovo) da scoprire, e questo coinvolgente thriller psicoanalitico sulle aberrazioni del potere,  vero e proprio saggio  sulle nevrosi da onnipotenza, diventato l’indiscusso e insuperato “capostipite” di un genere molto frequentato nel decennio di riferimento e poi (purtroppo) lentamente dispersosi nel nulla, per il suo valore intrinseco, oltre che per quello sociale e politico,  il successo anche di pubblico che gli arrise e la miriade di premi che gli furono tributati, non ultimi quello speciale della Giuria al festival di Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero dell’anno, è stato ampiamente e adeguatamente voltato e rivoltato in tutti i possibili versi, letto e interpretato a piacimento, non solo per trarre il succo dal suo contenuto più o meno gradito e condiviso a seconda del posizionamento “mentale” dell’osservatore, ma anche per verificarne la qualità della forma, e di fronte a questa seconda possibilità di lettura, non dovrebbero davvero mai esserci differenze sostanziali fra un pensiero di “sinistra” e  uno di “destra”, anche se i fatti e la storia ci dimostrano che non è così – o per lo meno non lo è più -  che vanno le cose nemmeno di fronte all’espressione “artistica” di un autore “importante” e riconosciuto come Petri (a quando il recupero della sua straprdinaria “rilettura” televisiva de Le mani sporche di Sartre con Marcello Mastroianni, Giuliana De Sio e Giovanni Visentin?).
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, ci arrivò davvero fra capo e collo in una particolare congiuntura  della nostra vita politica e sociale, un momento così carico di tensioni e scontri, da costringere anche il più spensierato referendario ad entrare, come si suol dire, nel merito caldo delle questioni non solo di carattere morale che il film tirava in ballo e a rispondere  a seconda delle idee professate e delle convinzioni estetiche seguite, agli interrogativi, numerosi e compositi,  proposti, magari anche per negarli, ben s’intende, o diluirne la gradazione troppo accesa con un po’ d’acqua tirata su dal pozzo della retorica “democratica” (Lorenzo Quaglietti). E i dibattiti furono di conseguenza infuocati e combattuti,. Portati avanti con irriducibile determianzione.
Forse riportandoci a quei tempi (certamente, nonostante le storture, meno eticamente devastati  e conflittuali di quelli del presente, almeno sotto il profilo delle coscienze “condivise”) potevano apparire per qualcuno persino plausibili (certamente non per me però, che le ho sempre considerate puntualizzazioni palesemente pretestuose che deliberatamente tendevano a trascurare minimizzandole fino quasi ad annullarle del tutto, le connessioni emblematiche della vicenda, al fine di annullarne la portata e soffocare così il peso della denuncia)  le argomentazioni fortemente oppositive riferite a quel finale che metteva in evidenza l’impunità di un individuo per la sua “posizione” di inattaccabile (quello che si potrebbe definire come “il principio” dell’insindacabilità del potere e dell’ingiudicabilità della casta), ma a certi “atteggiamenti critici” un po’ stonati emersi in quell’epoca lontana, potremmo facilmente rispondere adesso  che la realtà è andata ben oltre ciò che il film intendeva evidenziare, perché anche se non si parla ancora di “delitti cruenti” in senso stretto, l’impunità “ ammessa ed accettata” , l’imperseguibilità di chi sta al comando, forze dell’ordine comprese, è una diffusa condizione di privilegio che si vorrebbe far diventare garantita persino da leggi ad hoc.
Se infatti c’è un film (e il riferimento è davvero propedeutico) che ci impone una analisi strutturale a livello testuale oltre che metaforico che al di là dei fatti mette in discussione un “posizionamento mentale”caratteristico di una società fortemente prevaricatrice e lesiva di molti “diritti” come la nostra, questo è proprio  Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
Le molteplici letture a cui si presta, perfettamente amalgamate dentro un progetto generale che mette a fuoco l’unicum inscindibile dei vari piani rappresentati, che sono poi quelli della “denuncia” (la violenza e la prepotenza del potere poliziesco) dell’“indagine” (il patologico gioco sadomasochista che governa i rapporti fra l’ambiguo protagonista  e quella che diventerà poi “la sua vittima”) e dell’“analisi” (la spietata dissezione della classe media soprattutto centro-meridionale su cui si basa la burocrazia statale e gli apparati delle forze dell’ordine, entrambi fortemente attratti da una spinta di riconoscibilissima ascendenza autoritario-fascistoide), ne fanno un’opera tanto “trasparente” nell’indicare l’obiettivo,  da apparire persino un po’ schematica. Ma è proprio da questo suo essere deliberatamente “dichiarata” che trae gran parte  della sua forza, poiché utilizza una appropriata forma narrativa caratterizzata  da un linguaggio concitato e parossistico che punta le sue carte sugli aspetti grotteschi del paradosso che accentuano notevolmente la virulenza polemica dell’impianto, ma che sono capaci di mettere lo spettatore nella posizione “riflessiva” di chi è chiamato a valutare quanto fino a quel momento ha visto, per trarne poi le debite deduzioni generalizzanti e tenerne conto adeguatamente.
Non è però un “pistolotto” semplicemente a tesi legato all’attualità di quei tempi, persino anticipata in alcune sue estreme manifestazioni, come l’indirizzo impresso alle indagini dopo l’attentato dinamitardo, tanto per fare un esempio concreto, che evidenziava il già in atto, degenerato esercizio del potere che ormai ben conosciamo, perché il film propone anche un’altra problematica più sottile ed inquietante (e forse anche meno evidente al primo approccio) che riguarda il concetto stesso di “potere”, utilizzato da chi lo gestisce, come elemento di coercizione (fisica e mentale) in ogni situazione e “condizione” di rapporto che Petri (insieme a Pirro con il quale ha elaborato soggetto e sceneggiatura) evidenzia non solo nella  accurata descrizione  di “quel protagonista,” un mediocre personaggio della piccola borghesia meridionale che non ha la possibilità di accesso a un potere diverso da quello burocratico, e che sfoga nell’autorità le sue repressioni sessuali e di classe (Fofi), ma anche nell’indagine sul contorno, fatto di rapporti un po’ anomali evidenziati dalla ricostruzione (i frequenti flash-back) di quel “parallelo” passato anche “amoroso” – si fa per dire – che rappresenta la costola “drammatica” dell’opera e la cartina di tornasole che mette in moto il meccanismo che approderà poi per altre vie, alla “denuncia” della grottesca, kafkiana “ipotesi” assolutoria del finale.
L’intreccio  in quanto tale, a prescindere cioè dai particolari aspetti del suo decorso, ha in ogni caso già un primo grande merito che è poi quello di aver infranto, nel cinema italiano naturalmente, perché di questo si parla, il “classico” schema un po’ usurato del poliziotto esemplare, o comunque di simenoniana derivazione “buonista”, adeguandosi invece (e perfino superandolo nella carica eversiva) alle già meno convenzionali, ma alla fine sempre un po’ pacificanti perché collocate quasi sempre sul fronte del caso eccezionale della classica “mela marcia”, rappresentazioni fatte già da tempo dal cinema americano, cosa questa che lo rende “anticipatore” e  innovativo.
Anche Petri comunque utilizza per il suo discorso una deviazione patologica (il suo poliziotto senza nome è indiscutibilmente uno psicopatico), ma la circostanza viene assunta con straordinaria intuizione, come una inevitabile presunta acquiescenza che lo lascia apparentemente ancorato alle regole di un gioco un po’ “sovversivo” accettabile e tollerato dal sistema solo se portato ai limiti estremi della credibilità (l’escamotage che gli permette di superare le maglie repressive della censura?), e lo fa appunto attraverso quel grottesco “espanso”, ma espresso in forma di narrazione realistica, magnificamente utilizzato per raccontare un enigma al rovescio, o meglio,  per dimostrare come sia in effetti possibile la volontà intrinseca di non voler scoprire, quando fa comodo al potere, persino un assassino confesso. La macchina funziona perfettamente (e i risultati sono eccellenti) perché è guidata da un’idea forte e pervasiva, che è poi quella che riguarda come si è visto,  il radicato convincimento  che non solo il potere è ingiusto e unicamente repressivo (sono evidenti le derivazioni di  pensieri e concetti “realisticamente concreti”  direttamente mutuati dalla contestazione sessantottina), ma che è anche inesorabilmente impotente: e qui non sono ovviamente soltanto sbirri gli uomini che rivestono i panni del potere, ma anche patetici pagliacci, e Gian Maria Volonté questo ha capito e questo ha  espresso con la straordinaria, superlativa potenza istrionica del suo inimitabile talento.
A ben guardare, del resto (ed oggi risulta ancora più evidente) l’aggrovigliata personalità  del protagonista incide soprattutto sul piano spettacolare-narrativo della storia, non sul terreno dell’intervento polemico contro gli abusi e i soprusi che il regista intende additare al pubblico ludibrio delle coscienze illuminate, visto che le schedature politiche, l’uso dei metodi inquisitori spesso illegittimi, i pestaggi e le prevaricazioni, erano “deviazioni” strutturali già  radicate che cominciavano ad emergere dall’omertà diffusa, ed erano già approdate, come si sul dire agli “onori” della cronaca documentata dei giornali e delle televisioni . Dire così “esattamente” le stesse cose, ma rappresentarle come farneticazioni di una mente malata, assume allora il senso di una intuizione artistica di ammirevole efficacia e perspicacia che diventa una forma avanzata di protesta “metaforizzata”, capace con la sua estremizzazione “plateale” un po’ volgarizzata e guascone, di sollecitare un interesse straordinario, e ottenere di conseguenza la partecipazione attivamente critica dello spettatore.
Oggi più che allora, risulta poi particolarmente indovinata per la presa empatica della vicenda, la scelta di dare al racconto la struttura tipica del “giallo” (la peculiarità dell’opera è proprio quella di aver inserito molti elementi del film-inchiesta nell’ossatura del poliziesco tipico) con la puntuale e spesso estrosa applicazione delle relative tecniche (la sequenza iniziale è in questo senso un piccolo capolavoro per le possibili variazioni interpretative che offre in relazione a quanto sta effettivamente  accadendo).
Pur rimanendo nella tradizione del genere,  comunque, tutte le soluzioni “conformi” adottate (la sospensione emotiva delle azioni, il colpo di scena) che attingono a piene mani e con competenza alle risorse tipiche del “thrilling”, sono  in gran parte risarcite (nobilitate)  dal taglio  kafkiano  del grottesco, che si tinge di inquiete venature fortemente disturbanti. Potremmo semmai imputargli (ma è la classica ricerca del pelo nell’uovo a mio avviso) una certa insistenza nella reiterazione delle “divagazioni” erotiche del protagonista, non tutte strettamente necessarie ai fini della esatta definizione etnica e psicologica del personaggio, o una certa verbosità nelle filippiche spesso esorbitanti (che lo stratosferico talento di Volontè già ampiamente sottolineato, è capace di farle diventare in ogni caso pezzi straordinari di inarrivabile, mattaoriale bravura e di “godibilissima” percezione), ma sono piccole dissonanze ininfluenti, perfettamente riassorbite dalla vivacità e dall’interesse del quadro complessivo.
Il discorso sugli sconvolgenti aspetti della gestione del potere è dunque chiaro, preciso e convincente, sia nelle sue manifestazioni più prettamente “private” (il sadomasochismo delle  “derive” amorose) che in quelle della esposizione pubblica dei propri convincimenti programmatici: La repressione è il nostro vaccino. Repressione è civiltà,  vera e propria dichiarazione “di intenti” messa in bocca in conclusione del ”celeberrimo” discorso  di insediamento  di Volontè al comando dell’ufficio politico, e uno dei più intriganti “pezzi forti” della rappresentazione.
Nell’invenzione e nella (ri)composizione delle tante immagini allusive che rimandano ai rapporti prima del “delitto”, di tutto ciò che cioè sta  “a monte” dell’azione, si avvertono così interessanti richiami esistenziali alla tendenza implicita dell’uomo (come individuo) alla sopraffazione dei propri simili, che ingloba, qui a ruoli anche contrapposti,  quelli che riguardano la stessa  sfera affettiva). Un altro esempio sintomatico e chiarificatore, si ha proprio nell’episodio dell’idraulico arrestato: convinto  dal protagonista  (che gli si rivela come l’assassino di cui si parla nei giornali) a compiere il proprio dovere di cittadino andandolo a denunciare, il poveretto è sottoposto a un trattamento che lo sconsiglia di riconoscerlo come colpevole, quando gli si para davanti, sicuro di sé e dell’effetto intimidatorio insito nella rivelazione improvvisa della sua identità di tutore dell’ordine lo stesso uomo che si è dichiarato responsabile dell’omicidio. C’è infatti dentro questa remissività qualcosa di molto  più  inquietante di un comportamento “semplicemente” dettato dalla paura,  che   a me sembra di poter individuare in  una ancora diversa, più nuova e perversa  idea di definizione del potere e della sua forza “corruttrice”, identificabile in un fenomeno  eversivamente  molto più devastante, poichè  è capace di corrompere nello stesso modo (e contemporaneamente) non solo chi lo esercita, ma anche chi lo subisce,  il che rende ancora più chiara ed evidente, ma soprattutto avversabile, la gestione arbitraria che ne viene fatta.
Lo si potrebbe dunque benissimo definire un beffardo e un po’ “surreale” diario di uno schizofrenico. Ad essere chiamati in causa, sono come si è visto, proprio i principi cristallizzati della Legge e dell’Ordine, oltre che le aberrazioni di un Potere che si ritiene al di sopra di ogni moralità, un discorso come si è visto non solo attuale, ma anche oggettivamente coinvolgente per una riflessione critica di ciò che avviene sulla scena politica e intorno a noi.
Ennio Morricone fornisce il contrappunto “ispirato” di una straordinaria colonna sonora perfettamente intonata al tema (davvero fra le sue migliori), a sua volta indimenticabile e ironicamente pervasiva, che si coniuga con assoluta aderenza con le immagini e con il senso dell’opera.
L’inarrivabile protagonista già ampiamente glorificato per il valore intrinseco del suo apporto che lo fa essere elemento inscindibile e privilegiato, è attorniato da un folto gruppo di altrettanto bravissimi interpreti, capaci di lavorare in perfetta aderenza con il disegno registico. Sono infatti tutti attori di grande prestigio e di nobile ascendenza teatrale come Gianni Santuccio, Salvo Randone, Orazio Orlando e Massimo Foschi. Florinda Bolkan, nel pieno splendore delle sua fulgente opulenza giovanile, fornisce “corpo” e anima al personaggio di Augusta (fra i  produttori c’era Marina Cicogna, e la presenza dell’attrice in quegli anni era abbastanza scontata – quasi inevitabile oserei dire - considerato il particolare, profondo legame che le univa), mentre  a Sergio Tramonti è affidato l’esuberante ruolo del capelluto studente accusato di eversione che si ritrova suo malgrado “intrappolato nella rete”.
Accurata e pertinente la fotografia di Luigi Kuweiller, e una volta tanto da citare in primo piano, anche l’ottimo, importantissimo contributo del montaggio  inappuntabilmente e “puntualissimo”, garantito dalla professionalità indiscussa di Ruggero Mastroianni.

Sulla trama

Il nevrotico protagonista (significativamente senza nome), neopromosso dirigente dell’Ufficio politico della Questura, uccide l’amante Augusta Terzi, frustrato dalla relazione che li ha legati a lungo, fonte di  cocenti umiliazioni e spesso condotta sulle tracce di un gioco di ascendenza sadomasochista. Arrivato in qualche modo al “potere”, la nevrosi dell’uomo si trasforma nell’arroganza di un superuomo in sedicesima (vedasi  il discorso di investitura come dirigente pronunciato davanti agli alti funzionari del ministero). In una sfida di “onnipotenza” contro i suoi colleghi che indagano su delitto, dissemina volutamente ovunque adeguati indizi della sua colpevolezza. Più tenta di farsi scoprire però, più le ricerche prendono altre strade. A un certo punto, il poliziotto si accorge di essersi spinto troppo avanti  e teme di essere scoperto, ma trova subito una via d’uscita: fermato un gruppo di studenti  per lo scoppio di alcune bombe al commissariato, manovra le cose in modo da far convergere i sospetti proprio su un capellone che potrebbe testimoniare contro di lui, ma quest’ultimo, che gli tiene testa a muso duro, poi non dice nulla, perché gli fa più comodo credere e rimanere ancorato alla convinzione che tutti quelli che dirigono la repressione politica,, sono dei criminali, condannabili più per quello che per le singole azioni delittuose che “potrebbero” aver compiuto. Finalmente, il poliziotto assassino confessa in una lettera il misfatto compiuto, descrivendone il movente e offrendo le prove concrete del suo delitto, ma la lettera non viene presa in considerazione, “immaginata” come elemento di calunnia verso un uomo “per bene”,  ma in pratica perché il potere non può perdere  credibilità, come accadrebbe invece se si desse credito alla cosa, e si procedesse a un arresto di “un integerrimo uomo di legge”...

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