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En el balcón vacío

Regia di Jomí García Ascot vedi scheda film

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La recensione su En el balcón vacío

di lostraniero
8 stelle

Uno come Alvaro Mutis, in un film così ci si sarebbe fiondato a rotta di collo. Occasione unica di vivere dentro ad un esilio al cubo, l’autore di “Un bel morir” e di “Maqroll” si sarebbe sentito a casa; una casa fatta di cose indefinite seppur reali, inopinate mura che generano ombre. Gigantesche. Onde di buio a mezzogiorno e spruzzi gelati come schiuma di confine. “Attraversare il deserto cantando, con la sabbia attaccata ai denti e le unghie con sangue di monarchi, ecco il destino dei migliori, dei puri nel sonno e nella veglia”. Già, ecco; in pratica quello che volevo dire e non son riuscito a dire in questo incipit, lo ha detto perfettamente lui!

Quale piacere più grande ci sarebbe stato per Mutis, se non sfiorare questa triplice consapevolezza del perdurare dell’assenza (o del disparire del concreto), che è il sostegno estetico e concettuale del capolavoro di Jomi García Ascot? ? {1} La storia della lotta dell’idea contro la regressione dell’imposizione, ciò che potremmo molto semplicemente chiamare lo scontro – non titanico ma contratto, cellulare e mai sistemico – tra ‘res pubblica’ e ‘dictatura’. ? {2} Fuga verso altrove che è anche (seconda condizione dell’essere proscritto) la notazione del trascorrere del tempo umano, la perdita dell’infanzia in una maturità di tristezza perturbante; anche il passare del passato e il presentarsi del futuro ricorrono al tema della rivoluzione, all’abbandono del mondo della superstizione infantile, del sadismo primario o della castrazione sessuale della pre-pubertà, per tuffarsi in quel gran mare delle relazioni amorose e della costruzione di nuovi rapporti con ed in ‘nuove vite’. “Esilio del regno fanciullesco in un processo di partenogenesi spontanea”, direbbe un pedagogo che vedo quasi ogni settimana al market ed a cui non affiderei nemmeno la psicogenesi di una Barbie parlante con le batterie al litio. ? {3} Infine, terzo livello di vita del fuggiasco per antonomasia, il ritorno alla radice dell’immagine cognitiva; qui in questo film di superiore chiarore epico, la scena della protagonista (la ‘niña Gabriela’ adulta e tornata a Pamplona), che cerca di riconoscere la casa della puerizia.

In un bel pezzo di Josè Martì, il titolo è Racconto degli elefanti” ed è contenuto nella raccolta “L’età d’oro”, il povero pescatore Shumarkoff – per caso puro e sporco metodo di lavoro –, estrae fuori dai ghiacci della sua Siberia, un enorme mammuth nero/peloso; lui ci guadagna delle ottime zanne bianche (“lunghe tre yarde”, precisa l’autore), i cani possono saziarsi per settimane con quella montagna di carne appena scongelata e la comunità ci tira fuori una caldissima coperta di pelle, così ampia che ci vogliono più di venti uomini per farla rotolare via verso il villaggio! E sappiamo quanto amore ebbe il poeta e rivoluzionario cubano per la letteratura infantile, di quante immagini di bambini e di crescite, d’abbandoni e di corpi ‘migranti’ in altre sensibilità naturali si possa parlare quando si tenta di ripercorrere l’intera sua produzione. Quanta dolce violenza riuscì ad infilare, parola dopo parola lungo il filo di trama, e che ogni sua immagine – travestita da ‘fabula’, ma in realtà ‘timore’ – voglia lasciare nelle pupille trasognanti delle giovani anime che lo ascoltano, il battere incolto della guerra della vita. Che il racconto così finisce; con l’agone dissennato, quasi grottesco, tra un cacciatore ed un elefante che gli ha infilzato il baule di cose quotidiane e che, con cinque pallottole di carabina in pancia, stramazza poi in riva al fiume.

“Perché abbiamo sofferto di ristrettezza, come le nostre foreste. Il fasto delle foglie non ha permesso di vedere la sostanza del tronco. Sono stati i nostri popoli, venuti all'esistenza nello sforzo di una violazione irrefrenabile, nel matrimonio empio di un giglio e una lancia, come quei novizi poeti che versano, in frasi confuse e rime incolori, il loro vago desiderio di musica celestiale. Prima quella vita, forte e virile, ha condito con i suoi succhi amari gli affetti strazianti che generano la poesia!”.

Così pare questo (dis)sepolto film del 1961, che ebbe pure una certa notorietà al festival di Locarno di quell’anno lì; una bestia curiosa che incute una quasi-repulsione, che muove le zanne nel vuoto e che infine crolla dinnanzi a noi in un ultima inquadratura di follia.

 

 

 

 . ;     /////         ^ ≥◊≈ …..La balle non è labal, ma è la pelota!..... ~±° ::-. /()/|||||||

 

 

 

Il fatto è che Alvaro Mutis in questo film c’è per davvero.

Lui è dentro quest’opera completamente ‘altra’ dall’industria cinematografica comunemente intesa, forse il risultato più poetico (più ostico, più autenticamente fittizio) giuntoci dal Messico per tutti gli anni ’60; impersona il gendarme in borghese che avvicina la bambina al parco, per la cronaca degli annali.

Nell’ogni caso e più di qualsiasi altra cosa, lui è uno dei fondatori del ‘Grupo Nuevo Cine’ che funge da base operativa per l’intera ideazione e realizzazione del film; infine, fa parte della redazione della rivista “Nuevo Cine”, che esce per sette – densissimi – numeri, in nome e per conto di un auspicato rinnovamento culturale e che tenta (fallendo, sia detto per inciso) di smuovere lo stagno della cinematografica mexicana. Mutis, anche se non riportato dai crediti ufficiali del film, aiuta a limare alcuni passaggi della narrazione e cura tutta la parte finale del girato, quella del ritorno nella casa abbandonata della cresciuta Gabriela Helizondo.

Un film incredibile, nel senso che è davvero poco ‘credibile’ come negli stessi mesi in cui Robert Wise definiva la sua ‘Storia della Zona Ovest’, nel tempo uguale in cui prendevano forma cinematografica cose quali “Colazione da Tiffany” o “La dolce vita”, una troupe tanto allargata quanto improvvisata, per ben 80 domeniche mattina si dava appuntamento fuori dagli orari di lavoro e dagli impegni personali, con la volontà di portare sullo schermo il racconto della scrittrice Maria Luisa Elìo (moglie del regista ed attrice che impersona se stessa nel finale delle riprese). Il tutto girato con una poco convenzionale macchina da presa da 16mm (una Bolex Paillard, comprata come nuova da Fernando Lipkau, che – così riportano le cronache – ebbe modo d’incepparsi più di una volta sul set!). Ma un’opera che, come il mammuth siberiano di prima, resta congelata e limpidamente contornata nei suoi dettami (artistici/emozionali/storici), tanto che può ancora adesso essere divorata come intuizione e come dichiarazione talentuosa.

E se il cuore del ‘drama’ è la guerra civile spagnola (vista, ovviamente, dal lato dei perdenti, dei repressi e dei fuggiaschi), il vero karma è quella sorta di esilio dell’infanzia che, forse, avrà qualche addentellato con ciò che possiamo trovare tra le pagine proustrilkiane. O giù di lì.

Un film che continua a bilanciarsi su scene che si svolgono davanti a delle finestre, a dei balconi, a delle vetrate, quasi a somigliare allo squarcio dell’attenzione nostra verso la storia che sta fuori nel mondo ma che, inesorabile, produce il ‘crescere’ dentro noi della pena, della nostalgia e della solitudine. Poco più di 50 minuti di sincope narrativa (martirizzata dalla qualità della pellicola, oramai ingravidata dal fascino dello sfocamento e dallo zoppicare del passo ridottissimo), che ci conduce per ellissi e per elisioni, e che – per 18 quadri animati – ci trasporta verso una grande allusione. Ritornare è abbandonare per sempre.

Annotazione breve: molto bella, nella sua semplicità e nella sua magnificenza, la scena nel ristorante parigino (una inquadratura non per gioco, ce lo traduce nella scritta sulla vetrata ‘TNARUATSER’, a mo’ di richiamo infantile ad un ghirigori inestricabile) in cui fanno colazione la madre e le due figlie, oramai in salvo dalla repressione franchista; con uno stentato francese, ordinano tre caffè e tre croissant e la sorella maggiore, mentre il cameriere si allontana, ruba una mela dal tavolo e la mette in tasca. Ridono, irrefrenabili, divertite. Non sanno ancora che tra qualche anno anche la ‘Villa delle Luci’ verrà travolta dall’orrore e dal dispotismo, e dovranno nuovamente rimettere gli stracci del proscritto. Tagliare l’oceano. Tentare l’esistenza, che sarà piena di lutti e di privazioni, in terra mexicana.

Insomma, un film incredibile molto credibile, dedicato a tutti i ‘piccoli figli della guerra’ (che vivono morti, oggi, a Kabul o a Damasco, a Mogadiscio come a Rio de Janeiro, a Bucarest, a Tripoli e a Napoli) che hanno ancora sette anni. Cinque nella mano destra. E due nella mano sinistra.

Salud, compagni (di giochi)!

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