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Aita

Regia di José María de Orbe vedi scheda film

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La recensione su Aita

di lostraniero
8 stelle

Quale film personale! Che epos politico senza alcuna remora!

No, nossignore, non sto parlando di registi che vanno per la maggiore, l’ultimo spettacolo di un Loach (marxismopentitismo) o di un Carax (individualleninismo), ma di uno sconosciuto ‘trattato’ di un anonimo regista alemanno/catalano, che mette in chiaro – e finalmente, cazzo! – come stanno veramente le cose al mondo. E lo fa per crepe di tramezzi e per sfaldamento d’acqua di risalita, per persiane arrugginite e porte anchilosate, su pareti consumate dalla decalcificazione e dall’accumulo di ossidi autocombusti; per edere avviluppate, per mosche zizzaganti nel vuoto di soffitte, da stanze algebriche a scale astratte. Ma anche per spettri di luce e suono, per spettri in carne ed ossa (!), per conseguenze spettrali di ciò che vuol dire ‘starsene nella’ o ‘andarsene dalla’ realtà. Cos’è la realtà, come la si può misurare? Decodificare e rimescolare, ecco e dunque. Perché il Caos è l’unica ideologia permanente nella storia del pensiero politico umano, e fotte alla grande qualsiasi partitura comunistica o neoliberista.

Qui c’è tutto questo – l’immane anarchia del tempo umano, incavato nell’ordine astrofisico e naturale –, ed ancora architettura, cinema, fotografia, musica, pittura. Letteratura. Letteratura? Certo, letteratura; come si fumigano gli Anobium punctatum con una bella dose di alluminio magnesio, ad esempio.

 

 

 

 

Honoré de Balzac , nel romanzo “Ferragus” datato 1833, parlando della sua amata/odiata Parigi, nomina “vie disonorate”, “vie nobili” e “vie semplicemente oneste”; “giovani vie sulla cui moralità il pubblico non si è ancora pronunciato”, “vie assassine”, tutta una lunga serie di vie legate ai loro caratteri di tipo non solo socioeconomico ma addirittura connotandole, alcune, per il grado di igiene e di salubrità ambientale. Infine, indica delle “vie più vecchie di quanto non sia vecchia una vecchia madre nobile”. Italo Calvino, un certo giorno di un certo mese del 1972, mentre lavora a quella che poi risulterà essere una delle sue opere più affascinanti, scrive: “Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili”.

Ora, venendo al nostro più modesto discorso che questi appunti sparsi vogliono definire e lasciare lì alla buona attenzione di chi, oltre a leggere questi sublimi creatori di pensiero e di immagini, vive e vegeta in una delle tante cittadine di questo impero sgretolato, in una di queste province italiche in quest’epoca – Italia/Sicilia/Trapani/Salemi, facciamo a caso mio e a tema –, si diceva che questi ipotetici abitanti delle cives ‘indefinite’, forse più che la città madre/matrigna del grande romanziere francese o le proiezioni utopiche e futuristiche dello scrittore ‘dimezzato’, trovano più quotidianità nel rapporto (1:1?, 10:10?, 100:100?) con il declino (da ‘declinare’, porsi sul clivio del tempo e ridiscendere a valle, lungo il sentiero che porta il muro a ritornare pietra e poi finalmente roccia informe) di una singola unità abitativa. La nostra comunissima casa. Anzi... la Casa.

 

 

 

 

Qualcosa che abbia radice nazionalpopolare e che si possa avvicinare, o che possa scontornare meglio questo pulcrissimo “Aita” in giro – a cercar da matti e da innamorati – lo si trova: penso, innanzitutto, a “Case sparse. Visioni di case che crollano” di Gianni Celati (Pianura Padana /// portato a buonfine con l’indispensabile aiuto di Paolo Muran e di Lamberto Borsetti; cfr. il bell’astuccio di Fandango Libri che, oltre al citato film, contiene anche due altri documentari ed un esplicativo libro che accompagna immagini pensate e pensieri immaginari), a “I colori dell’abbandono” di Paolo Taddei (Pentadattilo, Calabria /// su sceneggiatura del frontman del Parto delle Nuvole Pesanti, Salvatore De Siena, con una storia di abbandono territoriale e di speculazione edilizia di chiaro stampo mafiosetto), il più recente “Montedoro” di Antonello Faretta (Craco, Basilicata /// storia alquanto non-riuscita ma altrettanto fascinante che, in chiave mitopoietica, ricompone un discorso sul Sud del mondo e sul Sud dell’animo umano). Su coordinate solo apparentemente distanti, c’è l’intrigante ‘racconto delle paure’ che Lorenzo Bianchini fa nel suo “Oltre il guado” tra alcune cascine di montagna e luoghi d’ancestrale sospensione del tempo (Friuli /// con gli esterni ‘dal vero’ e le ricostruzioni posticce degli interni di scena). E – infine – tutto, dove un pizzico più e dove un pizzico meno, il lavoro di ricerca toponometrica (termine anche detestabile, volendo), del fare film di un regista marcatamente ‘atmosferico’ come Michele Frammartino.

Ma l’ultima e più completa trattazione sullo ‘spettacolo della fine di un’agglomerato di abitazioni private’ (il big bang dell’abbandono della storia e del subentro del mythos nell’incavo creatosi), la si è avuta recentemente in tv, con la serialità preconfezionata anche se molto ben costruita, del brand “Ghost town”, otto puntate (alcune anche fuori dai confini nazionali) condotte dall’attore/fotografo Sandro Giordano (qualcuno lo ricorderà nello “Stendhal” argentiniano).

 

 

 

 

Il film di de Orbe è un autentico percorso ad ostacoli.

Tutto si centra su una casa patrizia appartenuta alla famiglia Murguías, nella zona basca di Gipuzkoa. Una costruzione risalente al XIII° secolo ed ampliata e ristrutturata più volte nelle epoche successive; “una casa fortificata” come la descrive una visitatrice, “una casa-tomba” come invece la vede il regista che ne fa un vero e proprio contenitore della memoria. Un luogo sacro dove convivono i vivi ed i morti; i primi possiedono la casa nella piena luce del giorno, mentre i secondi la posseggono nel silente buio delle ore notturne. Verso la metà del film, durante una tempesta notturna, iniziano a materializzarsi i ‘fantasmi’ che altro non sono che vecchi spezzoni di cinema antesonoro proiettato sui muri e sulle cose; con le sue emulsioni, i suoi fotogrammi bruciati, lo ‘sporco’ della pellicola e tutta quella povera gente che appartiene al Paradiso in cielo e oramai più al Purgatorio in terra. Dal lampo della fòlgore al lampo del nitrato, che è già un piccolo escamotage geniale. Che avvicina questo film a “Tren de sombras” di Josè Luis Guerin; ma mentre lì c’era un che di ‘bourgeois’ e di melodramma, qui tutto è abbastanza iperrealista, manierato ciclotronico. Insomma, se mi consentite una baggianata che però suona bene, eccovela: se in Guerin c’è del Lubitsch, in de Orbe c’è tanto Welles!

Un espressionismo astratto che, mi pare, giochi molto con le linee di colore di un Rothko e – per ovvia affinità di ‘materiali decomposti’ – si avvicini spesso alla sculture di cose morte di Ferruccio Bortoluzzi.

 

 

 

 

Viene in mente un documentario fatto da Pier Paolo Pasolini nel ’75 in cui, parlando dei cambiamenti del paesaggio e l’influenza che queste modifiche hanno sulla cultura materiale delle comunità, rispondeva di buon grado alla domanda: “Tu cosa salveresti?”. Pasolini, in quelle immagini, nomina il piccolo centro di Orte, sostenendo di voler salvare non solo la forma della città deturpata dalla presenza di una casa popolare costruita poco lontano dal centro abitato, ma anche una semplice strada fatta di massi. Salvare quel viottolo significava per lui salvare una testimonianza di un passato ancora vivo nella memoria che sarebbe altrimenti andato inesorabilmente perso. Anche il viottolo, la strada fatta di massi, la difficoltà del camminare assume, per chi è abituato a vivere lì, un valore che non può essere sostituito da una strada asfaltata.

Ed appunto, dicevamo del valore ‘politico’ forte, qualora lo si riesca a leggere ed a sopportare (supportare), di “Aita”; come se la vita degli uomini possa sì scorrere repentinamente sullo schermo quasi immobile della storia, ma trovare compimento solo nel deposito scuro, misterioso di ossa e di oggetti di vita oramai consunti e frammentati, che degli archeologi del quasi-presente tirano fuori molestando la sedimentazione del silenzio, dell’oscuro, dell’informe e dell’arcano. La casa della famiglia Munguías, vicino ad Ergobia, sul fiume Urumea, è la grotta del Neanderthal del tredicesimo secolo. Insomma, più o meno. Come le grotte naturali di Santiagomendi, come l’antro di ‘El Castillo’, non molto lontano da lì, che hanno conservato a noi gli stencil di mani pre-istoriche; forse i dipinti più antichi al mondo.

Una casa-vampirismo che detiene l’energia di chi ha creduto di poterne essere padrone, di poter esistere dentro alle sue viscere senza incorrere in alcun male. Di cristallizzare ruolo sociale e deità della forza virile! “La storia è lenta. La vita è veloce”, lo dice pure apertamente un personaggio all’inizio del film. E così facendo ce lo spiega e lo sigilla. Per sempre.

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