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La città spenta

Regia di André De Toth vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su La città spenta

di Marcello del Campo
8 stelle

Non si può dire che il film sia stato un successo alla sua uscita sugli schermi, spesso è il tempo che gioca a favore dell’opera che progressivamente diventa un ‘classico’. Oggi possiamo dire che La città è spenta è un baluardo dell’hard boiled statu nascenti: non è casuale, infatti, che J. Ellroy inserisca questo film tra i suoi dieci preferiti.

 

 

 

Bimbo, c’è un abisso tra ciò che si vuole e ciò che si deve fare, vuoi un esempio?

A me piace la sigaretta ma il dottore me l’ha proibita, allora che faccio?, mastico stecchini.

A tonnellate.

 

 

 

ANDRÈ DE TOTH

 

In un’intervista della rivista “Lumière!”, alla domanda se l’occhio mancante sia stata una caratteristica di alcuni registi dell’epoca ‘d’oro’, Bertrand Tavernier risponde divertito:

     “Sì, ce n’erano quattro, con Tex Avery siamo a cinque! Cinque guerci. Si sa perché avevano perduto un occhio, tranne De Toth che rifiuta di dirlo… John Ford, durante la Guerra Di Corea, Raoul Walsh per un incidente d’auto, Fritz Lang per un’infezione all’occhio… De Toth ha semplicemente detto: ‘Ho guardato nel buco sbagliato della serratura.’. Non so come commentare ciò.”

     Tavernier è uno dei tanti registi estimatori del cineasta guercio inflessibile, ovvero, come lo definisce Martin Scorsese, “…a director’s director… an unsung hero… Un eroe sconosciuto, dunque, ma ammirato anche da Richard Donner, Nicholas Roeg e Quentin Tarantino.

 [come dimostra questo omaggio-video:  http://www.indiegogo.com/projects/andre-de-toth-the-director-s-director].

     Scrive Patrick Bureau: “Guercio, non gode né della stima né dell’indulgenza di altri due celebri guerci, Raoul Walsh, John Ford. Ma vogliamo essere originali. Cacciatori di indiani rimane uno dei più bei poemi panteisti mai dati al western, un poema dove la natura fondeva in un solo elemento indiani e cowboys, alberi e fiumi. La presenza di Elsa Martinelli, una splendida scena d’amore nel fiume, piena di erotismo silvestre, ne perfezionavano l’assunto. La notte senza legge, western di neve e d’inverno, notevole per lo scontrarsi di due nature, quali Robert Ryan e Burl Ives, né all’onesto La maschera di fango. In breve. Soggetti assai buoni, ma un’estetica che non resiste all’usura.”. [AAVV. Il Western, Fonti Forme Miti Registi Attori Filmografia. Feltrinelli, 1973].

     Non so dove Patrick Bureau abbia trovato notizia della disistima degli ‘altri due guerci’, è molto probabile che il critico dei Cahièrs se la sia inventata per imprimere il suggello della verità alla sua evidente antipatia per il regista ungherese: si noti con quanta sufficienza [Vogliamo essere originali], usando il plurale maiestatis, analizza/banalizza il cinema dell’esule ungherese, mai derivativo, al contrario, anticipatore di film che la critica, questa sì guercia, ha osannato come se la storia del cinema di genere non fosse un continuo farsi e disfarsi di esiti antecedenti. Che, a ben vedere, Cacciatore d’indiani è dello stesso anno de La magnifica preda di Otto Preminger, 1954, Hondo di John Farrow “preannuncia nettamente Sentieri selvaggi di Ford” (ancora Bureau, questa volta nel giusto) e La città è spenta che anticipa, soprattutto nei tic orali e nel gigantismo di Sterling Hayden/Johny Clay Rapina a mano armata di Kubrick di due anni successivo.

     Si deve, ancora una volta, al pregevole indispensabile occhio critico di Renato Venturelli la rivalutazione dei noir di De Toth:

     “Nonostante la discontinuità della sua produzione e lo scetticismo da parte degli ‘storici’ sostenitori della politique des auteurs, De Toth è del resto un regista sostenuto da una continua ricerca di linguaggio e da una volontà di forzare almeno la superficie della confezione hollywoodiana. Formatosi nella Budapest tra le due guerre, diceva di aver voluto mantenere negli Stati Uniti una sua autonomia, evitando ad esempio gli abituali contratti a lungo termine con le major. ” (L’età del noir, Einaudi, 2007)

   La città è spenta (Crime Wave) è la prova di orgoglio di un director per nulla propenso ad accomodamenti. Duro, inflessibile come Sterling Hayden/detective Sims e Gary Cooper/Maggiore Alex Kearney di Springfied Rifle (La maschera di fango, 1952), entrambi film di De Toth, il regista rinuncia, infatti, a un grosso budget per girare il film in 35 giorni se accetta come protagonisti Humphrey Bogart e Ava Gardner. Un’offerta che è da folle rifiutare. L’ungherese ha in mente Sterling Hayden, Gene Nelson, Ted De Corsia (un monumento nella storia dei villain che sarà il poliziotto Randy Kennan in Rapina a mano armata), il giovane Charles Bronson (che appare nei crediti come Charles Buchinsky e che nello stesso anno troviamo nel western di De Toth, L’assedio di fuoco, in Rullo di tamburi di Daves, e in Vera Cruz di Aldrich), Doris Day voce fuori campo nell’edizione originale. Il budget viene limato sensibilmente, il film deve essere girato in 15 giorni. De Toth lo finisce in 13 giorni.

     Non si può dire che il film sia stato un successo alla sua uscita sugli schermi, spesso è il tempo che gioca a favore dell’opera che progressivamente diventa un ‘classico’ (come insegna Italo Calvino). Oggi possiamo dire che La città è spentaè un baluardo dell’hard boiled statu nascenti: non è casuale, infatti, che James Ellroy inserisca questo film tra i suoi dieci preferiti e ammetta di essersi ispirato al detective Sims per definire il Bud White di L.A. Confidential.

 

 

 

 

TRAMA

 

Durante una rapina a una pompa di benzina, tre evasi da San Quentin, il poliziotto corrotto Doc Penny (Ted de Corsia), il delinquente muto Ben Hastings (Charles Bronson/aka Charles Buchinsky) e Gat Morgan (Ned Young) uccidono un poliziotto. Braccati dalla polizia, coinvolgono nel piano di fuga l’ex amico di scorribande criminali Steve Lacey (Gene Nelson) che da un pezzo ha deciso di diventare un buon cittadino e vivere tranquillo con la moglie Ellen (Phyllis Kirk). Sulle loro tracce c’è il detective Sims (Sterling Hayden).

 

     Fotografato magnificamente da Bert Glennon che non dimentica la lezione di Jules Dassin (The Naked City, 1948), il film non ne riprende però lo stile documentaristico “affermatosi nel dopoguerra banalizzato poi negli anni cinquanta da polizieschi di piatto descrittivismo televisivo.” (Venturelli ibid) ma con accentuata profondità di campo e un bianco e nero di grande lucentezza che ad alcuni è parso somigliare alle fotografie sulla scena del crimine di Arthur Fellig (Weegee), grande ispiratore anche del giovane reporter Stanley Kubrick che, a parte l’avere scritturato per il suo Rapina a mano armata De Corsia e Hayden, deve, senza alcun dubbio tratto altri elementi ispiratori, come la geometria delle scene e la durezza dell’occhio della cinepresa: “… tagli di luce abbaglianti, esterni reali, macchina da presa che aggredisce le figure con rapidi movimenti in avanti, lunghe riprese che tendono al piano sequenza. La prima mezz’ora si svolge tutta in una notte, la rapina iniziale e quella finale sono girate tenendo la macchina da presa sul sedile dell’automobile, come in La sanguinaria o La donna del bandito.” (Venturelli, ibid)  

     Imponente con il suo 1,96 m. di altezza, quasi ingombrante, meglio, come se lo spazio dello schermo fatichi a contenerne la robusta complessione, Sterling Hayden è un detective come non se ne vedranno più; forse Robert Ryan o Bob Mitchum o Burt Lancaster hanno riempito lo schermo in modo analogo ma, a conti fatti, non si può dare torto a De Toth di avere rifiutato il brevilineo Bogart che in quella parte non ci stava proprio, lui occupava lo schermo psicologicamente né gli mancavano i tic labiali, come il passarsi il pollice lungo la linea del labbro inferiore, come farà in suo omaggio Belmondo in A Bout de Souffle.

 

   Hayden buca lo schermo, la sua interpretazione è indimenticabile: lo stuzzicadenti in bocca, masticato furiosamente perché il detective ha smesso di fumare, è il tic orale di cui si ricorderà Jean-Pierre Melville che è un altro ammiratore di questo film e che in seguito sarà il sigaro in Stranamore, senza per questo volere afferire a inutili metafore (“L’operazione metaforica di indicare un simbolo fallico ogni volta che un particolare testuale somiglia all’organo maschile svilisce il concetto freudiano, entro il quale le sue funzioni sono ben più complesse. Scovare simboli fallici è diventata un’operazione critica così banale da risultare praticamente la sola che l’adolescente americano impara a fare a scuola.  I simboli fallici più banali sono le pistole, le corna di toro, i cannocchiali e i nudi sigari prediletti dagli uomini duri.” [Richard Klein, Seduzione della sigaretta, Archinto, 1993])

    Infine, Hayden/Sims è il fulcro sul quale poggia la filosofia del film, un disincantato cinico inappellabile sguardo sul male e sull’impossibilità di un cambiamento.

 

 

 

 

 

 

    

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