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Chinatown

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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Marcello del Campo

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Chinatown

di Marcello del Campo
9 stelle

 

Jack Gittes (Jack Nicholson), l’agente privato, si è sempre occupato di questioni matrimoniali ma questa volta è alle prese con un groviglio di forze viscide e sfuggenti. Un caso così complicato non gli era mai capitato: un ambiente losco, personaggi dalla psicologia contorta, la borghesia di Los Angeles. Jack prende molte legnate perché la smetta di continuare le indagini, gli viene anche deturpato il naso da un brutto figuro (Roman Polanski) con un’arma da taglio. Alla fine Gittes, già un tempo sconfitto (la sua donna del passato uccisa a Chinatown), scopre quale disegno si celi dietro la rude apparenza di Noah Cross, un mostro demoniaco avido e incestuoso (John Huston).

L’elemento chiave della storia è l’acqua, il principio vitale di tutte le cose, che percorre il film da cima a fondo: “La vita comincia nei ristagni dell’acqua marina”, dice il vecchio Noah Cross, citando il genero assassinato. L’acqua è l’oggetto della detection: le fontane, il mare, le dighe, l’acqua che fa scivolare, investendolo, Gittes dalle rocce verso il mare, si presentano come segnali di morte. Gittes capisce che il proprietario dell’acqua è il vecchio Cross, e il conflitto tra il detective e il vecchio assume dimensioni bibliche (Noah è Noè). L’eroe che vediamo sullo schermo con il naso incerottato paga ancora una volta: a Chinatown un’altra donna perderà la vita senza che lui possa fare niente.

Luogo mitico del nero americano, dove sono possibili tutte le corruzioni e ogni delitto, Chinatown è anche la sede dell’inconscio e del sottosuolo dove premono forze oscure e inintellegibili.

Forget it, Jack, it’s Chinatowndice a Gittes il poliziotto Escobar (Perry Lopez) alla fine, lascia perdere, Jack, è Chinatown!

La storia del quartiere cinese diventa la storia della città, la verità di tutta una nazione, i segni di un disagio, lo specchio in cui si colgono i misteri e le angosce della coscienza americana. Anche la storia gira su se stessa e percorre le stesse tappe: a Chinatown si era già svolta la storia che Jack racconta a letto a Evelyn (Faye Dunaway) dopo la scena d’amore più bella che si sia mai vista al cinema:

 

Jack: I tuoi occhi.

Evelyn: Cosa hanno i miei occhi?

Jack: C’è come un puntino.

 

Jack Nicholson, Faye Dunaway

Chinatown (1974): Jack Nicholson, Faye Dunaway

 

Il naso di Jack, l’occhio di Evelyn, gli occhiali di Hollis Mulwray nell’acqua sono altrettanti segni dell’impossibilità di capire o vedere (“Male pe l’erba”, dice il cameriere cinese, ma Gittes capirà solo alla fine che il mare ha corrotto “l’erba”). Gittes è infatti l’eroe ficcanaso: Evelyn ha visto troppo, così suo marito, ‘l’uomo delle acqua’. E tutti vengono puniti come da una maledizione biblica.

La trama di Chinatown è una ragnatela inestricabile dovuta allo sceneggiatore Robert Towne (L’ultima corvè, Perché un assassinio, Yakuza) che certamente più che Chandler ha tenuto presente John Ross Mac Donald, il suo epigono più contorto e barocco. L’investigatore Lew Archer è più vicino a Gittes di quanto non sembri: in uno dei romanzi più belli di Ross Mac Donald, L’uomo sotterraneo (The Underground Man, 1972), Archer si muove tra intrighi da psicanalisi e il testo invece che dall’acqua è percorso dal fuoco che divampa furioso devastando boschi, case e uomini.

 

Jack Nicholson

Chinatown (1974): Jack Nicholson

Acqua e fuoco sono gli archetipi della filosofia occidentale. Questa osservazione ci spinge a considerare Chinatown un film (diversamente da quanto molti hanno inteso) poco chandleriano; il modello incontestato del genere, Il grande sonno (The Big Sleep, 1946) di Hawks/Bogart resta insuperato[1]. Forse, a mio parere, Bersaglio di notte (Night Moves, 1973) di Arthur Penn, superiore a Chinatown – nessuno se ne risenta – è il film più vicino al modello.

L'acqua ritorna nella scena in cui lo sgherro (Roman Polanski) dice a Gittes che sta scavalcando la recinzione: “Pesciolino mio. Non so se Towne abbia volutamente alludere all'elemento marino, ma senza dubbio Polanski, memore di Cul de sac, deve avere messo le mani sulla sceneggiatura.

Un'altra annotazione riguarda l'inquietante parallelo tra il dialogo che ho sopra riportato sul 'puntino nell'occhio' di Faye Dunaway: è il 'puntino' che nel finale viene colpito e deturpato dal colpo di pistola.

L'occhio tagliato è il titolo di un saggio di Gianni Rondolino sul surrealismo e Buñuel: Polanski, coscientemente o meno inserisce elementi che sono estranei alla logica della scrittura del noir, un'altra prova dell'estraneità di Chinatown al genere

Chinatown trasgredisce la regola aurea di Chandler che nel 1944 scriveva: “Il romanzo poliziesco, come ‘forma d’arte’ è stato così sfruttato che il vero problema per uno scrittore, ora, è quello di evitare di scriverne uno pur ostentando di farlo”.

Polanski si accontenta di scriverlo, e contravvenendo alla raccomandazione chandleriana, dissemina lungo il film strizzate d’occhio, ammiccamenti e ‘segni’ al genere in auge negli anni ‘30, caricando la trama di simboli e metafore ipertrofiche. Ne deriva un’opera con due anime, quella hollywoodiana dei genere ‘retro’ (Paper Moon, La Stangata, ecc.) fatta con molta intelligenza, non a caso con elementi dei vecchio clan di Roger Corman, Robert Towne, il fotografo Alonso, lo stesso Nicholson; l’altra anima è quella della vecchia Europa, (Polanski è mitteleuropeo come Lang, Siodmack Wilder e Curtiz) che dimostra la sua capacità di adattamento del geniale regista nel misurarsi con un fìlm di genere, ma non sa sottrarsi alla tentazione di una lettura metalinguistica del testo.

Ne deriva un film fascinoso, ben diretto, ben recitato ma anche straordinariamente ibrido, che non sa decidere se privilegiare il racconto (hard boiled) o l’apologo kafkiano.

 

 

Chinatown (1974): Trailer originale

 

[1] Con un commento a una mia play sul ‘noir’ [10 marzo 2009], Fixer contesta con molto acume la mia asserzione che The Big Sleep sia un ‘noir’.  “Il noir, per me”, scrive, “è uno stile, un rivoluzionario modo di ‘illuminare’ la realtà. E quindi, metterei in primo piano chi ha ‘inventato’ un nuovo modo di usare la mdp. e quindi non potrei non citare John Alton, James Wong Howe e Nicholas Misuraca. Poi è un genere che ha un tema centrale: un destino già segnato; è il fato a guidare l'uomo e non viceversa. E quindi, nell'universo noir, tutto è prestabilito e deciso. Occorre quindi basarsi sui writers che adottano quest'ottica e mi riferisco, in particolare, a James Cain e Raymond Chandler (anche se con qualche perplessità) e pochi altri. Un ruolo importante lo copre la musica e credo che Miklos Rosza sia il più innovativo, seguito poi da Bernard Herrmann. Ma i veri creatori del noir sono i registi mitteleuropei. Il noir ha stretti legami con l'espressionismo tedesco e le paure, gli incubi e le angosce vengono portate di peso a Hollywood proprio da questi registi: Wilder, Preminger, Lang, Siodmak, Ulmer, Dieterle, Polonsky e Anthony Mann. Il noir è il genere meno americano di tutti e quello con più debiti europei. In effetti, il noir è un genere sovversivo che non ha nulla a che vedere con lo studio system e i suoi happy end. Il noir è un genere che sovverte il modo di fare e pensare il cinema e irride le sicurezze e le sicumere di una società che si crogiola nelle sue false sicurezze. Il noir è un pugno nello stomaco che cerca di far pensare e che poi finisce, purtroppo, per essere fagocitato dal calderone tritatutto della fabbrica dei sogni. Alcuni all-americans riuscirono, per la loro intelligenza e versatilità, a calarsi in questo genere (e cito a spanne Delmer Daves e, un po’, ma solo un po’ Hawks). L'ultimo a esercitarsi in questo genere fu Welles che era forse il meno americano di tutti e lo fece con L’infernale Quinlan che segna la fine del vero noir. Dopo, c'è ben poco.  Aggiungo una riflessione sul Grande sonno che tu consideri un noir. Ho visto diverse volte questo film e mi sento di ripetere ancora una volta che si tratta di un gran bel film ma non di un noir. Se assumiamo il postulato che il poliziesco non è per forza un noir e che il noir va oltre il genere poliziesco e si spinge su terreni imprevedibili (cfr. il western Notte senza fine) e li accomunano il crimine e la trasgressione, dovremmo assumere anche che non ci può essere noir senza severitas. Il tono deve essere cupo, gli ambienti soprattutto chiusi e illuminati in orizzontale. Ma allora che ci fa Hawks in tutto questo? Hawks era un uomo straordinariamente allegro, faceto, arguto e non soffriva certo delle depressioni e angosce che attanagliavano i registi mitteleuropei in fuga dal nazismo. Hawks è il re della commedia e, dato che è un geniaccio, gli riesce a meraviglia anche il thriller, il western, il poliziesco, il war-movie. Un vero genio. Ma il noir, no, per fare un noir devi avere nelle budella un guazzabuglio fatto di rabbia, angoscia, pessimismo e quant'altro. Hawks si diverte a fare film, mentre per fare un noir si soffre dentro e ci si arrabatta e affanna per trovare l'inquadratura che ci renda inquieti, la luce che ci metta sulla difensiva, un'atmosfera che ci faccia piombare nell'incubo. Il bello è che lo si doveva ottenere non grazie ai vampiri, agli schizzi di sangue, ecc ma ad un'inopinata discesa nei propri scantinati mentali. Val Lewton era riuscito nei suoi film a far paura senza far mai vedere ‘il mostro’: questa tecnica è contemporanea e vicina al noir, ma non ne ha le basi culturali e storiche, però ha quelle psicologiche. Ciò che fa paura è ciò che non si vede. Il nazismo era un mostro che non si vedeva chiaramente, agli inizi del nazismo, e i registi emigrati a Hollywood scelsero questa tecnica non a caso.”. La questione è aperta: si può rispondere al dubbio di Fixer con una estensione ‘artificiale’ del concetto di ‘noir’, oppure contestare l’idea stessa di ‘genere’ che è una sorta di gabbia ideologica, ma credo che Fixer abbia, infine, ragione. The Big Sleep non è un ‘noir canonico’ e anche Renato Venturelli [L’età del noir, Einaudi 2007] fa i salti mortali per includerlo tra i noir. “Per certi aspetti”, scrive [pag. 101], “Il grande sonno è quindi un film quasi sperimentale, che indebolisce la logica narrativa per seguire il labirinto di personaggi e situazioni.”  

 

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