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Two Half-Times in Hell

Regia di Zoltan Fabri vedi scheda film

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La recensione su Two Half-Times in Hell

di lostraniero
7 stelle

 

 

 

Annamo a fa’ sta sceneggiata…

 

 

 

Che se il ‘barbudo’ di Treviri si fosse visto una sola puntata del “Processo” di Aldo ‘Dènchiu’ Biscardi, o avesse dovuto analizzare il plusvalore di uno qualsiasi degli schemi tattici di Zeman (dal primordiale 1-2-3-5, al più evoluto 1-1-2-6, per finire col più meditato 0-0-0-11 degli anni della maturità), o avesse ricevuto in vita sua una sola telefonata minatoria di Luciano Moggi (che, pare, sia apparso in sogno pure a Padre Pio, anche se il Pietralcina Football Club non è mai andato oltre la Terza Categoria), alla religione – appunto! – non avrebbe ceduto il primato di causa-effetto di tutta quanta questa ‘stupefazione’ settimanale della gente. Lo avrebbe affibbiato all’arte pedatoria.

Che siam passati – tempo qualche generazione nel mezzo –, dall’ostica, antipatica ed affascinante poetica (cresciuta a sogni e povertà di un piccolo fiol de burg, pulenta e discorsi de piàsa) di un Gianni Brera, alla pazza/metodica migrazione (extra)corporea tra sinistrdestr di un lottafeltriniano come Giampiero Mughini, alla chioma albina e alla dialettica grigioparrocchiale di un certo Zazzaroni, per giungere alle anarcoaziendali incursioni di personaggi bulimici, patetici (in senso: pieni di pathos e – ordunque –patologici), ugolanti e miagolanti di cui è sparsa la galassia dei canali satellitari e delle tv-delle-squadre (uno come Martellini inorridirebbe al solo pensiero, durante una delle sue famigerate ‘pause da telecronaca’ in cui gli spettatori avevano anche il tempo di organizzare e consumare agresti picnic ‘fuori porta’)…

 

 

 

Annamo a fa’ sta sceneggiata…

 

 

 

Ma il calcio è il calcio, e alla guerra si va come alla guerra. Inappuntabile. Se c’è un mondo dove sia pensabile (quindi tu te magni la minestra coi broccoli e te bevi un litro di vino de li Castelli, per produrre sinapsi e comporre alla fine della tua giornata di essere parassita eterotrofo) una frase come “Morto un Paparelli se ne fa un altro”, beh, quello è il mondo del pallone gonfiato. Anzi, dei palloni gonfiati in fondo ad una rete. Quello che importa è che si sia lasciato proliferare, in questo subconscio domenicale, tutto il morigerato armamentario della xenofobia, della poliarchia monodiretta (le curve ultras- e trans-umane che ricevono ordini da un solo e poeretto codice sociocomunicativo: “Buuuuu!” e “Dai, muori! Dai, fallo per noi!”, come filosofia di vita ad oltranza). Dalla movimentazione sociale delle alleanze di nazionalismi borgatari, riflussi e reflussi gastrointestinali di politiche demo-catto-proletarie che hanno sollevato palazzinari e bombaroli al cospetto dei ‘padri costituenti’, ed inabissato PPPs (LUI giocava come ala destra – illuminante! – e pare fosse di una pignoleria tattica anche urticante) dentro a pestaggi sui lidi e a dimenticanze furfantelle nei programmi scolastici nazionali. Che hanno vissuto Coree (1966, l’anno del capolavoro ignorato dei Beatles – “Revolver”, ecco tanto pe sta’ tantancora sur pezzo – e 2002, l’anno in cui cinematograficamente parlando, Wladyslaw Szpilman, dopo la morte dello Zio Benito viene morso da un ragno, s’incammina verso Mordor e, dopo varie telecronache differite, si ritrova con William Cutting e Monty Brogan all’ultimo anello delle Twin Towers!), e sopravvissuto a menti da psicoanalizzare come ‘Mondino Fabbri, Culone Sacchi, Johannes Trappa, Hobby DinDonaDoni, Giulio Cesare Piadelle e PierPiero Sventura, e quindi DEVONO potersi sfogare, ininterrottamente, dall’anticipo del sabato al posticipo del lunedì sera. Che solo un presidente di federazione come Lynch, avrebbe potuto pensare di spostare il quadro nero del Giorno del Signore, diluendolo surrealisticamente in un intero weekend ed oltre.

Post-coitum del pezzo centrale: 1966 è 19=1+9=10, 66=6+6=12, 10+12=22; 2002 è 20+02=22; ora sta al nostro libero arbitrio dare sta cazzo de maglia 22 o a Di Maria o a Corluka…

 

 

 

Annamo a fa’ sta sceneggiata…

 

 

 

Nella vita rimangono certe solo due cose. Che Anna Frank tenesse in cuor suo per Pupo Totti e che John Huston si fosse visto e rivisto fino allo sfinimento questo “Ket felido a pokolban”, del magiaro ed onesto Zoltan Fabri. E a ciò, se voglio chiudere il delirio di una recensione che pare indirizzata stancamente ai supplementari e al golden-goal, devo assolutamente attenermi.

Pare che a servire in area di rigore l’assist di questa storia della ‘partita della Morte’, fosse stato un evento dal vero; l’epopea calcistica di una squadra ucraina, lo FC Start di Kiev, che dalla primavera all’agosto del 1943 piegò tutte le squadre incontrate nel suo campionato regionale, compresi due forti team tedeschi (l’Ucraina di allora era già sotto il tallone militare nazista), il PGS ed il Flakelf. La vicenda poi si biforca in due rivoli di racconto contrapposti; c’è chi asserisce che la rappresaglia dei tedeschi fu terribile, culminata con l’uccisione di quasi tutti gli atleti ucraini della Start, e chi invece sostiene che nulla di tutto questo avvenne e che l’eliminazione di alcuni giocatori e di alcuni dirigenti, avvenne per cause successive e totalmente slegate da quel girone calcistico. Fatto sta che tutto ciò che viene cinematograficamente legato a queste vicende storiche, è manipolato. A buon fine, si direbbe, ma non certo con grande serietà storiografica.

In quest’opera del ’62, Fabri, da autore perfettamente immerso in quel crocicchio stilistico e di contenuti che era il cinema magiaro d’inizio anni ’60 – stretto tra formalismo e rincorsa di nuovi alfabeti mediali –, si allunga e si stringe in una sorta di elastico tecnico che ripiglia in toto la narrazione ‘per capitoli’ (che era stata caratteristica di autori come Felix Mariassy o Marton Kelety), e cerca di modellarla ad un racconto asciutto e critico che non risparmia molti dei luoghi comuni del ‘film di regime filosovietico’ di allora. Media, il Fabri, e come aveva già splendidamente fatto in carriera (non so se qualcuno ha mai visto, da qualche parte ed in qualche forma, il suo notevolissimo “Hannibal tanar ur”; a-politico a-pocalittico a modo suo), tra esigenze produttive, aspettative di un pubblico che soli sei anni prima aveva assistito ad una nuova ‘invasione amica’, e dibattito politico (“L’Ungheria è solo una bandiera di stracci colorati!”, dice ad un certo punto il protagonista, il bomber destinato al patibolo, Dio Onodi). Operazione pericolosa e finissima, che però si perde – talvolta – in siparietti quasi comici (l’ebreo Steiner, ala sinistra alquanto improbabile e ciò che è nel film di Huston, l’actorbody Sly Stallone – quindi, nadir e zenith della prestanza atletica e del coraggio sportivo; il ‘ladro di marmellate’ Poganyi, che abbandona per l’intero primo tempo la squadra perché impegnato a defecare dietro a dei cespugli; la guardia carceraria Szabo, umanissima ed aliena figura narrativa, che addirittura si trova a giocare con i prigionieri e s’impegna pure a dare consigli tattici contro i ‘suoi’; l’arbitro che è un fascista italiano, con braccio stranamente ingessato, che tanto ma tanto sembra una riuscita parodia-citazione del Jack Oakie di chapliniana memoria), in alambicchi di seriosa propaganda che stridono come tackle da dietro a gioco fermo.

In ogni caso è un film da osservare con attenzione. E se, come ci riportano le cronache, a Kiev quel 9 agosto del 1943, dopo aver subito un opinato goal in apertura, una punizione da trenta metri di Kuzmenko ed una doppietta di Goncharenko (la ‘rovesciata finta’ di Pelè del 1980 è la sua ‘semirovesciata reale’ del 1943), rimisero la partita sui binari voluti dagli ucraini ed indirizzarono il risultato finale sul 5-3, né il lavoro di Fabri, né il coetaneo “Tretiy taym” del russo Karelov, né il frullato di queste due opere fatto dal regista-pugile del Missouri, sono degne di credibilità storica. Per quel che ce ne fotte, infondo, visto che si parla di darle sul muso agli odiati crucchi. Insomma…

 

 

 

Annamo a fa’ sta sceneggiata…

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