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Khibula

Regia di George Ovashvili vedi scheda film

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La recensione su Khibula

di alan smithee
8 stelle

CINEMA OLTRECONFINE

Georgia 1993. Vittima di un colpo di stato, il presidente Zviad Gamsakhurdia, eletto poco prima a seguito di elezioni democratiche, è costretto a lasciare il potere e a darsi alla clandestinità.

Con a seguito un manipolo di fedeli collaboratori, il politico si rifugia nelle foreste attorno ai confini georgiani, puntando a rientrare nel paese con l’appoggio dei cittadini, gli stessi che a grande maggioranza lo hanno scelto ed eletto a seguito di regolari consultazioni.

Il viaggio sarà lungo e difficoltoso, percorso a fatica e sotto condizioni atmosferiche spesso avverse tra una natura prorompente che riesce sia a rivelarsi accogliente, sia un vero e proprio ostacolo ad un cammino che pare senza fine.

Stremati, gli uomini fedeli al capo e lo stesso presidente avranno modo di rendersi conto realmente come la pensa il popolo, scoprendo che la maggioranza di loro si aspetta ancora grandi cose dal loro ex capo di stato. Ma l’uomo, giunto fino al villaggio di Khibula, viene trovato la mattina misteriosamente morto con ferite da taglio che non riescono a chiarire se si tratta di un suicidio o di un attentato. La morte dell’ex presidente rimane da allora un mistero irrisolto.

Già regista dello splendido Corn Island (uno dei miei colpi di fulmine della stagione di due anni orsono), George Ovashvili pensava già dal 2009 a Khibula e alla storia su cui è incentrato il film: il regista si sente da anni come ossessionato dalla necessità di avere delle risposte, una verità attorno agli ultimi giorni di vita (e da fuggiasco) compiuti dal Presidente.

Nel film viene esaltato il rapporto uomo-natura, ove il primo è destinato a fruire della seconda, dalla quale tuttavia ha necessità anche di mettersi al riparo. E a questo punto intervengono gli incontri, di cui è foriero il territorio infausto, ma affascinante, entro cui ha luogo la fuga: occasione perfetta per dare modo all’ottimo regista di concentrarsi su figure solo apparentemente secondarie di una umanità che da sempre vive ai margini, ma che, forse proprio per questo, fa parte integrante della voce del popolo più genuina: tutti lasciano il posto, gradatamente e con prudenza, all’accoglienza più devota che subentra ad una innata diffidenza di fondo e li vede aprirsi ad offrire ognuno il loro umile tesoro al capo in esilio, stanco e sfiduciato: il meglio del cibo semplice che hanno a disposizione, il miglior giaciglio per passare la notte.

E qua e là, oltre alla vecchiaia che pare regnare incontrastata e ricorrente tra la popolazione che abita quelle sperdute terre di confine, qualche accenno di virgulti di gioventù, nelle vesti di una giovane contadina prodiga di cortesia e timida nel mostrarsi al celebre personaggio, serve a dare una spinta a non arrendersi ad un uomo che, stremato e sfiduciato, sarebbe umanamente propenso alla resa per mettersi almeno in salvo la pelle.

La potenza delle immagini e delle costruzioni scenografiche del cinema di Ovashvili trovano, nelle vedute di una natura innevata tra la vegetazione incontaminata e pura dei boschi, l’acqua rigogliosa dei corsi e delle cascate, e l’intimità discreta e semplice di interni di baite e case umili del volgo, un teatro perfetto per creare suggestioni e per rendere ancora più struggente un viaggio terminale destinato ancora oggi a non poter essere chiarito e a rimanere un mistero irrisolto, gettando per tal causa sospetti, probabilmente fuorvianti, sui validi e coraggiosi uomini che scelsero di seguire il loro presidente sin quasi alla fine del suo travagliato viaggio terreno.

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