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Napoli velata

Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film

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La recensione su Napoli velata

di supadany
5 stelle

Chiunque non ne stia già vivendo le conseguenze, spera di avere un incontro che possa cambiare radicalmente il modo di percepire l’esistenza, tale da far toccare il cielo con un dito e amplificare i sensi, rischiarando ogni cosa di nuova luce. I più fortunati possono gioirne a lungo termine, per altri rimane una parentesi di breve durata, ma il fato può essere anche meschino, levando subito dopo ogni certezza e riportando in superficie un rimosso depositato dietro una porta chiusa da tempo.

Con Napoli velata, Ferzan Ozpetek dispone un componimento sottoposto a forze rilevanti, con quel contorno pregno di particolari e conciliaboli animati che l’ha reso celebre (Saturno contro), quegli incontri che rivoltano come un calzino la vita (Le fate ignoranti) e quell’interpolazione tra presente e passato che mette alla prova (La finestra di fronte). Un proscenio particolarmente ricco, che elargisce ampie dosi di elementi in contrapposizione, contaminato da défaillance – talvolta di sconfortante banalità – che minano la credibilità del soggetto e non nella maniera voluta – e funzionale – che di principio intende togliere la terra da sotto i piedi.

Napoli, giugno 2017. Durante una festa, la matura Adriana (Giovanna Mezzogiorno) conosce il più giovane Andrea (Alessandro Borghi) e vive con lui una notte di travolgente passione. L’indomani hanno già un appuntamento che la riempie di vitalità ma, dopo aver ricevuto buca, lo ritrova disteso sul tavolo dell’obitorio, mentre svolge il suo incarico di anatomopatologo.

Mentre la polizia porta avanti le indagini grazie ad Antonio (Biagio Forestieri) e Rosaria (Maria Pia Calzone) e chi le sta vicino, come Pasquale (Peppe Barra), Catena (Luisa Ranieri) e sua zia Adele (Anna Bonaiuto), cerca di aiutarla, Adriana è risucchiata in una spirale, nel centro della quale la realtà e l’immaginazione non sono più distinguibili e pure il passato torna a tormentarla.

 

Alessandro Borghi, Giovanna Mezzogiorno

Napoli velata (2017): Alessandro Borghi, Giovanna Mezzogiorno

 

Accantonate la parentesi turca – respinta al mittente da critica e pubblico - di Rosso Istanbul e la patina da prodotto più televisivo che cinematografico di Allacciate le cinture, Ferzan Ozpetek torna a manifestare quelle ambizioni di racconto (Mine vaganti) e destabilizzazione (Magnifica presenza) che dall’inizio degli anni duemila, quando diresse Le fate ignoranti, gli hanno consentito di mietere successi commerciali, trovando spesso anche il beneplacito della critica.

Nel suo contenere spunti che vagano dalla dimensione prettamente artistica fino a scivolare nei meandri del vissuto popolare, Napoli velata assume la forma di una pentola a pressione pronta a scoppiare da un momento all’altro, che rilascia continuamente indizi, amando prendere piccoli spazi per attribuirgli una speculare importanza.

Nella fattispecie, l’introduzione rievoca una vertigine tipicamente hitchcockiana (La donna che visse due volte) e quanto percorre la psiche di Adriana crea un caparbio senso di disorientamento, mentre il contorno comprende spunti che sfruttano appieno la location napoletana, dando risalto alle sue molteplici espressioni, che richiamano l’inferno e il paradiso, l’abbacinante luce del giorno, così come delle spiagge, e il buio della notte, ma anche dell’anima.

Una scelta logistica consona all’uopo, per quelle brulicanti dicotomie che, oltre a quanto appena accennato, comprendono la superstizione e la cultura, il folklore e il reale da cui non si sfugge, la carne del corpo e i fantasmi, per un viaggio che oltre a essere psicologico diviene fisico, con tutte quelle figure e suppellettili che impreziosiscono l’affresco.

Premettendo che abbellire il tessuto in modo così generosamente partecipativo non debba piacere per forza, questi riempimenti sono un fattore tutt’altro che lascivo, ma poi c’è il resto, che va oltre la trama in sé, di suo portatrice di dubbi, e come tale interpretabile nei modi più disparati.

Difatti, la sensualità, coraggiosa per le modalità cui il nostro cinema ci ha abituato ma nemmeno così scardinante come la comunicazione della produzione promuove (per dire, La vita di Adele rimane su un altro pianeta, per stile, geografia di corpi e passione), e il mistero che avvolge ogni cosa, lasciando giustamente ampi spazi all’interpretazione, devono confrontarsi con dialoghi che denunciano chiare restrizioni nella loro disposizione, partendo dal primo approccio di Andrea con Adriana, che poteva enucleare ben altra animosità, mentre alcune congiunture sono di rara superficialità: addirittura, una morte in diretta di fronte a una limonata ghiacciata, sarebbe da considerare come inefficiente anche inserita in una fiction generalista.

 

Giovanna Mezzogiorno

Napoli velata (2017): Giovanna Mezzogiorno

 

Forse si può parlare di accantonabili difetti di forma, di effetti collaterali di cui non vale la pena tener da conto, ma lo spaesamento, indotto altrimenti in ogni modo, finisce per essere penalizzato, nonostante l’impegno di Giovanna Mezzogiorno, probabilmente l’attrice italiana migliore della sua generazione e che non si danna certo l’anima per apparire (quest’anno è stata immensa in La tenerezza, ma negli ultimi otto anni la ritroviamo in soli sei film, questo compreso), consumata più di quanto la sua età non dica, apparendo senza veli, di vestiario ma anche di trucco, mentre Alessandro Borghi rappresenta senza dubbio una certezza per il futuro del nostro cinema, ma questa volta è per lo più plastificato, non solo quando ciò può essere ritenuto propedeutico al narrato.

A conti fatti, Napoli velata elabora tante portate su cui disquisire e regala molteplici angoli di visione, non esaurisce il suo percorso con i titoli di coda - accompagnati da Vasame interpretata da Arisa - e ha tutto ciò che occorre per coinvolgere, ma si perde quando i dettagli devono andare oltre il caratteristico, in questo senso volti come quello di Peppe Barra - nonostante sia protagonista della già citata scena più superficiale del film (quella della limonata) – sono un dono gradito, denotando una pochezza sintattica che uccide l’emotività e ridimensiona pure il reiterato elemento artistico, che sia esso simbolico o fattuale.

Come perdersi in un bicchier d’acqua, promuovendo tante iniziative lodevoli per poi sminuire il labirinto creato, giocandosi il risultato finale quando la parte più difficile era stata – in un modo o nell’altro – condotta a compimento.    

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