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A Ciambra

Regia di Jonas Carpignano vedi scheda film

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La recensione su A Ciambra

di Peppe Comune
8 stelle

A Ciambra è il nome di una comunità rom che si trova a Gioia Tauro, in Calabria. Qui vive la famiglia Amato, dedita a varie attività illecite per tirare avanti. Della famiglia fa parte Pio (Pio Amata), un quattordicenne molto sveglio costretto a crescere più in fretta del previsto. Il ragazzo cerca di imitare le gesta del fratello maggiore Cosimo (Damiano Amato), specializzato nei furti d’auto anche per conto della malavita locale. Cosa vista malvolentieri dalla madre Jolanda (Jolanda Amato), che per lui vorrebbe un futuro più tranquillo, lontano dalla prigione. Pio è l’unico della famiglia a relazionarsi con la comunità africana del luogo. Stringe amicizia soprattutto con Ayiva (Koudous Seihon), che incarna un diverso modo di praticare attività illecite per cercare di sopravvivere.

 

Pio Amato

A Ciambra (2017): Pio Amato

 

 

“A Ciambra” del regista italo americano Jonas Carpignano è un film che si muove con fare etnografico all’interno di un campo rom calabrese, ne filma la vita nel suo svolgersi ordinario, equilibrando con sguardo antiretorico l’adesione umanista verso questi zingari “impertinenti”, avvinti da una concezione fatalistica della vita, e l’educazione delinquenziale di un ragazzo vissuta come l’unica cosa capace di farlo sentire veramente qualcuno. Bambini che fumano in tenerissima età, persone che si riscaldano davanti ad un fuoco che brucia sostanze nocive, l’elettricità ricavata abusivamente dai cavi dell’alta tensione, lo sproloquiare continuo a voce alta, ragazzini che popolano il campo invece di stare a scuola, questi sono solo alcuni aspetti che caratterizzano la vita nel campo e Jonas Carpignano vi ci porta dentro sin dall’inizio per farcene subito assaporare gli umori e gli odori. Poi è tutto un muoversi tra il dentro e il fuori il suo orgoglioso isolamento, tra i campi larghi che continuano a registrare l’esistenza caotica che vi scorre, dove tutti recitano più o meno se stessi, e i movimenti stretti della macchina da presa che fissano la loro attenzione sull’evoluzione esistenziale di Pio. Una dialettica tra campo e fuori campo che ci fornisce uno spaccato attendibile sulle caratteristiche di un campo rom attraverso l’adesione quasi documentaristica alla vita di un quattordicenne. Pio è un ragazzo sveglio e testardo, cresciuto vedendo fare furti di ogni sorta, impara presto a capire che quella è una strada segnata da cui è difficile sfuggire. Anche perché non conosce altre vie e non può fare altrimenti. Vive in un mondo che gli concede come unica scelta quella di arrangiarsi come si può per riuscire a sopravvivere. Con il padre e il fratello in prigione, Pio affretta ancora di più il suo già innaturale processo di crescita. Ha voglia di sentirsi utile e quindi si prende la responsabilità di trovare i soldi necessari per il sostentamento della famiglia. Questo confine sottile tra la scelta volontaristica e l’obbligo necessitato dalle condizioni di vita, rappresenta l’aspetto narrativo più interessante del film, un aspetto dai forti connotati antropologici ben incarnato dalla figura di Pio Amato il cui iperattivismo, se da un lato si sposa alla perfezione con l’urgenza di fuggire dai pericoli perenni consegnatigli in dote dalla natura del suo milieu d’appartenenza, dall’altro lato contrasta con la voglia di tenerezza che emerge da certi suoi slanci emotivi. Specchio fedele di questo aspetto centrale del film, è l’amicizia che Pio instaura con Ayiva (l’immigrato del Burkina Faso che incontriamo in “Mediterranea”), che se non serve ad affrancarlo da una vita fatta di espedienti illeciti, almeno gli fornisce l’immatura consapevolezza di poter guardare il mondo da una diversa prospettiva. Pio non può sfuggire dal suo circolo vizioso, non ne ha la voglia semplicemente perché non possiede strumenti culturali diversi da quelli che gli ha consegnato la vita che fa. Ma se il fratello Cosimo rappresenta per lui il punto di riferimento cui attingere per entrare più in fretta possibile nel mondo dei grandi, l’amico africano gli prospetta inaspettate vie di fuga.

Jonas Carpignano non fa sconti rispetto alla rappresentazione (anche stereotipata) dello zingaro colto nei suoi aspetti più direttamente legati alle attività illecite. Ma dal film emerge anche l’idea di come quegli stessi zingari siano inseriti all’interno di ingranaggio più ampio che tende a renderli agenti funzionali per il mantenimento di certi (dis)equilibri sociali. Il riferimento non va solo alla malavita locale, che li usa come pedine sacrificabili per le proprie attività delinquenziali, ma anche alla società più in generale, che ha sempre bisogno di brutti, sporchi e cattivi, a cui poter dare ogni colpa. Un aspetto quest’ultimo che si avverte ma che viene tenuto debitamente fuori campo, come un’ellissi narrativa rinvenibile negli occhi della signora Jolanda, nella rassegnazione dolente del nonno, nei desideri consumistici delle ragazzine, nel passo lesto di Pio. Segni che ci informano di scelte di vita prese volontariamente, ma anche della presenza sottintesa di una sorta di prigione invisibile che è come se li tenesse istintivamente ancorati alle uniche cose che sanno fare veramente bene. Belle ed emblematiche (a mio avviso) sono le parole che poco prima di morire nonno Rocco dice a Pio. “Una volta eravamo sempre per strada. Sempre per strada, Eravamo liberi e andavamo sempre per strada. E, invece, adesso siamo qua. Ricordati, siamo noi contro il mondo”. Parole che suonano come una litania ripetuta chissà quante volte, che insieme allo spirito che caratterizza la vita degli zingari, sembrano segnare la differenza tra la libertà nomade che non conosce confini e un sistema di cose che li ha confinati lontani da quel mondo che non li desidera.

“A Ciambra” è un ottimo film che conferma la capacità di Jonas Carpignano di saper portare lo sguardo a riflettere intorno a quel non visibile che abita la nostra dorata modernità. Dopo “Mediterranea”, incentrato sul calvario esistenziale di alcuni immigrati del Burkina Faso, questo ritratto senza buonismi di una comunità rom “tipo” rafforza la peculiarità del giovane autore italo americano nel fare un cinema di confine che sa farsi analisi lucida e diretta sul mondo contemporaneo.

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