Regia di Elika Mehranpour vedi scheda film
Una storia intricata e confusa. In mezzo a tanti eventi, un sola certezza: ogni momento è buono per scattare una foto.
La società dell’immagine è un mondo piccino. Avvicina singole intimità con il semplice gesto di scattare una foto. Fare clic è un attimo. Ed è, tutto sommato, la parte meno emozionante della faccenda. La vita vera è tutto ciò che viene prima e dopo, e rimane fuori dall’inquadratura. Questa storia iraniana si lascia mettere in cornice solamente a tratti: per il resto del tempo è inquieta e tesa, mentre si perde nel panorama di una città attraversata dall’ombra acrobatica di un parkour, oppure distoglie lo sguardo dalla vertigine del cambiamento. A fermarsi è solo, per un istante, la voglia di lasciarsi andare, giusto quel poco che basta per abbozzare un pensiero: la passeggera idea della solitudine, il cenno di un nuovo inizio, l’indefinita allegria del caos. Si tracciano punti isolati, solo per far sì che il continuo fluire del caso abbia in serbo per noi qualche nodo da sciogliere. Il messaggio di questo breve racconto è frettoloso e confuso, come la frenesia degli eventi che non sanno darsi una direzione. In sette minuti la vita rallenta e si mette a correre, muta scenario, riparte incerta e bizzarra, non si lascia afferrare. Precipita nel turbine di un senso mancato: quello che nessuno cerca più, perché il filo logico è spezzato dal puzzle incompleto di tanti frammenti visivi, sparsi lungo il cammino. Non si capisce dove si vada, ma non importa: ciò che conta è sapere di essere transitati per questo o quel momento, al quale abbiamo deciso di conferire la dignità di una tappa, forse di un traguardo, ma da non prendere troppo sul serio. Il ricordo deve essere possibilmente labile e sfumato, a testimoniare che, comunque siano andate le cose, si è passati oltre, senza badare a ciò che è bene, e ciò che è male.
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