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Stormmaker

Regia di Rubén Imaz vedi scheda film

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La recensione su Stormmaker

di pazuzu
5 stelle

Tormentero è un'operazione respingente e cervellotica oltre ogni dire, che rifiuta programmaticamente ogni forma di linearità e si crogiola nel proprio ermetismo, chiedendo allo spettatore di lasciarsi trasportare tra le belle immagini in un viaggio affascinante ma frustrante, serenamente annoverabile nella categoria degli esercizi di stile.

 

Tormentero è aperto da una didascalia nella quale, in prima persona, il protagonista racconta di quando, dopo tredici giorni al largo in barca, avvistò nell'acqua una chiazza scura che lo insospettì, portandolo a far presente la cosa a chi di dovere nonostante gli altri pescatori minimizzassero pensando al carburante perso da qualche imbarcazione: esaurite queste poche righe di introduzione, che resteranno il momento narrativamente più limpido e compiuto del film, iniziano le immagini, e con esse il pellegrinaggio di don Romero Kantun, detto Don Rome, tra le spoglie di un villaggio ora disabitato, al cui pontile non attraccano più barche e che nel mare non vede più pescatori ma solo un agglomerato petrolifero, e tra quelle della propria abitazione, nella quale, oltre alla sua inseparabile bottiglia di whiskey, si materializzano in ordine sparso figure a lui familiari.
La chiazza scura di cui parlava nella didascalia introduttiva era petrolio, e tale scoperta, se da un lato si rivelò una risorsa fondamentale per l'intero Messico e gli garantì la riconoscenza diretta (solo quella) di chi impiantando il giacimento iniziò a lucrarci, dall'altro causò di fatto la morte sociale del villaggio stesso e la rovina economica dei suoi abitanti - che si sostentavano grazie alla pesca del gambero - facendogli guadagnare il loro disprezzo.

 

 

Gli ottanta criptici minuti di Tormentero sono l'omaggio di Rubén Imaz (giovane regista giunto qui al quarto film) all'uomo realmente esistito - e del quale asserisce di aver visitato anche la tomba - che dopo la scoperta del giacimento in questione finì per morire solo e alcolizzato, rinnegato ed allontanato da quella che era stata la sua comunità. Tormentero, dunque, altro non è che il sogno inquieto e delirante di un uomo al crepuscolo giunto alle soglie della pazzia, disperato per la propria solitudine da un lato e per lo stato in cui la natura versa per via dalla cupidigia dell'essere umano dall'altro, e all'ostinata ricerca di qualcosa che possa sollevarlo dai propri sensi di colpa.
Messe in chiaro la genesi e il senso iniziale dell'operazione, e sottolineata anche l'affermazione del regista di essersi ispirato alla figura di Prospero de La Tempesta di Sheakespeare (anche lui espulso dalla sua gente) per conferire al personaggio di Don Rome dei rilievi ancestralmente magici, resta l'impressione di essere di fronte ad un'operazione respingente e cervellotica oltre ogni dire, che rifiuta programmaticamente ogni forma di linearità e si crogiola nel proprio velleitario ermetismo, chiedendo allo spettatore di lasciarsi trasportare tra le belle immagini create assieme a Gerardo Barroso (direttore della fotografia capace di unire nella stessa immagine neri profondissimi e colori caldi brillanti) in un viaggio affascinante ma quantomai frustrante, serenamente annoverabile nella categoria degli esercizi di stile.

 

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