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Coco

Regia di Lee Unkrich, Adrian Molina vedi scheda film

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La recensione su Coco

di supadany
8 stelle

Attribuire alla vita terrena un significato che vada “oltre” è un dono. Regalare un aldilà interpolato con quanto costruito in precedenza è un dividendo placcato d’oro. Proporre entrambe le cose è una primizia, che solo la fantasia più genuina può offrire. Pixar di alto livello.

Per trasformare i sogni in realtà, bisogna fronteggiare parecchi ostacoli, vincere quelle sfide che lastricano il cammino che separa dall’obiettivo, il più delle volte dettate da chi vuole raggiungere il medesimo risultato, talvolta originate dall’albero genealogico di appartenenza che, per esperienza, ostracizza una determinata funzione. Quando arriva il momento propizio, occorre prenderlo al volo con la massima determinazione anche rischiando tutto, ma nel modo giusto, senza sopraffare nessuno, perché – prima o dopo – i nodi vengono al pettine.

Attecchendo a una nota tradizione messicana, Coco officia un linguaggio universale, nella migliore tradizione Pixar, che non ha alcuna intenzione di rimanere confinato in un emisfero specifico, prendendo letteralmente per mano l’interlocutore posto dinnanzi allo schermo, posizionando un mattoncino alla volta, per arrivare – almeno - a intaccare anche lo sguardo più lascivo.

Messico. Il piccolo Miguel è disposto a tutto pur di diventare musicista, peccato che la sua famiglia, da sempre dedita alla realizzazione di calzature, sia contraria a qualsiasi espressione musicale, per colpa di un passato che l’ha segnata indelebilmente.

Quando, incautamente, si impossessa della chitarra depositata in corrispondenza del simulacro di quello che crede essere un suo antenato, Miguel si ritrova catapultato nella Terra delle anime, un aldilà abitato dagli scheletri di tutti quei defunti con qualcuno che tiene vivo il loro ricordo. Incontrando i suoi antenati, troverà le ritrosie di sempre ma, malgrado le avversità, decide di non arrendersi e di ritornare tra i vivi senza rinunciare al suo sogno: suonare la chitarra e cantare.

 

scena

Coco (2017): scena

 

Pochi mesi dopo aver distribuito un sequel di cui nessuno sentiva la necessità – Cars 3 -, la Pixar torna a coltivare un selciato nuovo di zecca, affidandolo a uno dei suoi registi più sorprendenti, quel Lee Unkrich che, dopo aver cooperato a Monsters & Co. e Alla ricerca di Nemo, aveva esordito alla regia in solitaria con Toy Story 3 – La grande fuga, uno dei terzi capitoli di un soggetto originale migliori di sempre, anche dei suoi pur illustri predecessori.

La scelta dispositiva ricade sul Messico, non per invaderlo e fletterlo sulle proprie esigenze, come il più delle volte succede quando una produzione americana presenta realtà esterne, ma per metterne in luce la sua vitalità, una dedica speciale alle sue usanze, un atto che diviene anche divulgativo – seppur nel nome della fantasia più sviluppata - al resto del pubblico. L’oggetto è il Dia de Muertos, uno spazio che, di recente, aveva già partecipato attivamente all’apertura delle danze di 007: Spectre ed era stato protagonista de Il libro della vita, un altro lungometraggio di animazione, meno diffuso ma comunque meritevole.

Coco si distingue dal suo recente predecessore, elargendo un distillato composto da ingredienti tra i più disparati, come insito nella migliore tradizione Pixar, che, al contrario della casa madre Disney, non privilegia per forza i più piccoli – che, va detto, difficilmente ne usciranno estasiati - ma pretende di offrire un plus che si rivolge – e travolge – il pubblico adulto.

Innanzitutto, la dimensione ultraterrena è l’occasione propizia per creare una dimensione - tutta da esplorare - di sana pianta, un mondo abitato da scheletri terribilmente umani, nelle loro virtù e debolezze, una metropoli verticale tra buio e luminescenze, con largo uso di intonazioni fosforescenti e caratteri, ma anche impellenti necessità, a fare tutta la differenza del mondo.

Di conseguenza, lo script è ramificato in modo tale da diffondere un sense of humour consono a tutte le tasche, sviluppando un crescendo emotivo degno di un prelibato climax, che parte mirando già in alto, con la creazione di intarsi di tessuto a fini narrativi, per poi mettere basi solide, con il piccolo Miguel, disegnato con un’espressione vispa e sbarazzina, e il suo sogno destinato a fare chiarezza su un passato secolare, sciorinando un contorno che contempla tutte le fasi della vita, anche quei nonni – e bis – che sono un fulcro ma che cui il cinema presta una relativa attenzione, e pure l’elemento più facilmente assimilabile dai più piccoli, un cane con la lingua a penzoloni, che più lunga non si può.

 

scena

Coco (2017): scena

 

Proponendo elementi di pura magia, come un ponte di foglie autunnali che un giorno all’anno diventa tramite tra due mondi, Coco si affida a una tradizione peculiare di un luogo per accendere la scintilla, con una morale fondamentale: mai dimenticare chi è stato al nostro fianco e non è più fisicamente tra noi, ma è ancora più importante seminare in prima persona finché ne abbiamo la possibilità, in modo tale di non farci scordare, lasciando nel corso della nostra vita una traccia, consistente al punto da rimanere indelebile nel cuore delle generazioni successive. In un’epoca che vede il singolo svettare su tutto – com’è chiaro dalle rappresaglie che si scatenano a ogni decisione comunitaria (giusta o sbagliata che sia) e anche tramite film ben più seri (il primo pensiero vola verso The square) -, si tratta di un insegnamento basilare, eppure troppe volte ignorato per l’interesse del quotidiano, un enunciato che assume forme chirurgiche.

Aggiungendo vari rimandi intrinseci alla filmografia Pixar, con scheletri più vivi degli umani come il ratto di Ratatouille era un cuoco più sopraffino del miglior chef, un respiro adulto tra malinconia e (tentata) sopraffazione come proposto in Toy Story 3 – La grande fuga, l’emozione travolgente dell’inizio di Up, qui traslata sul finale (un passo rimarchevole), e la creazione di uno spazio incontaminato, come avveniva per le emozioni del cervello umano in Inside out, Coco acquisisce significati plurimi, dai quali può attingere a svariato titolo un qualunque spettatore.

Un’esperienza che abbraccia il lugubre e i colori più accesi, trascinata dal soffio dello spirito tenendo sempre entrambi i piedi impiantati nel cuore di ciò che significa essere una famiglia, un pieno di emozioni che accoglie in sé gli atti considerati come sovversivi qualora fatti a fin di bene – qui, la musica – per risvegliare anima e pensiero, ricordandoci cosa significhi essere (davvero) vivi.

Scusate se è poco.      

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