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Mektoub, My Love: Canto Uno

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su Mektoub, My Love: Canto Uno

di laulilla
9 stelle

Questa pellicola non dà risposte e non racconta vicende: registra con affettuosa partecipazione l’estate bollente e giocosa dei ragazzi e soprattutto delle ragazze, di cui esalta l’irresistibile voglia di vivere, enfatizzandone il corpo, con riprese ravvicinate che esprimono insieme un poetico desiderio e una malinconica lontananza.

Siamo nel 1994; da Parigi, dove studia, Amin (Shain Boumedine) torna, per le vacanze estive, a Sète il piccolo centro di pescatori sulla costa sud occidentale della Francia mediterranea, dove era cresciuto e dove ora avrebbe rivisto la madre e gli amici di sempre. Aveva abbandonato gli studi di medicina, a cui si era iscritto, e aveva trovato la propria strada nel cinema: a Parigi, in autunno, avrebbe ripreso gli studi, questa volta per diventare sceneggiatore. Di origine tunisina come la famiglia da cui proviene, pienamente integrata nella società francese della cittadina, Amin è un bel giovane sorridente, educato, forse timido. Lo vediamo salire con la sua bicicletta verso l’abitazione di Ophélie (Ophélie Baufle), l’amica di sempre, l’antica compagna dei giochi infantili, che ora si occupa degli allevamenti ovini dell’azienda di famiglia; lo vediamo suonare alla porta della sua casa e dopo un po’ gettare un’occhiata all’interno dalla fessura della tapparella. Con lui, da questo momento, diventiamo i testimoni di una bella scena d’amore bruscamente troncata (rimarrà l’unico sensuale e gioioso amplesso di tutto il film a cui  aveva dato l’avvio), nonché  di quell’estate a Sète, durante la quale i giovani che lì abitano, quelli che lì ritornano per poco tempo (come lui) e quelli che lì vanno in vacanza in cerca di amicizie, flirt e svago, ruotano attorno ai luoghi del divertimento di allora: i ristoranti alla moda, le discoteche, la spiaggia.

Alcuni riprendono, dunque, antiche abitudini e vecchie amicizie, mentre altri creano legami nuovi; nascono gli amori stagionali e le gelosie, seguite da baruffe e pettegolezzi che coinvolgono principalmente la coppia Ophélie-Tony (Salim Kechiouche). La bella Ophélie ha un fidanzato lontano,  in missione militare all’estero;  il suo legame con Tony è universalmente immaginato, ma è ben dissimulato dal suo accompagnarsi costante con Amin. Qual è il ruolo di Amin, bello e gentile, ammirato e forse desiderato da molte ragazze? Quale quello di Tony, che tutte corteggia? Quale quello delle donne e degli uomini che gestiscono i vecchi ristoranti di specialità mediorientali, trasformati, in versione aggiornata, in ristoranti cinesi?
Questa pellicola non dà risposte e non racconta vicende: registra con affettuosa partecipazione l’estate bollente e giocosa dei ragazzi e soprattutto delle ragazze, di cui esalta l’irresistibile voglia di vivere,  enfatizzandone il corpo, con riprese ravvicinate che esprimono insieme un poetico desiderio e una malinconica, ironica lontananza. È un film che narra per significativi frammenti tra i quali emergono pagine di grande poesia, come quella dell’aggirarsi di Amin nell’ovile di Ophélia in attesa di fotografare, da vicino e alla sua altezza, una pecora, al momento del parto, che è di bellezza commovente per la compassione che sa trasmettere attraverso il corpo materno in travaglio e per lo stupefacente  miracolo della vita che vediamo farsi strada oltre il sangue e il dolore. Forse, il segreto dell’indubbia suggestione dell’intero film. è proprio nel permamere, al di là delle cose raccontate, di questo atteggiamento commosso e meravigliato col quale Kechiche ci racconta la vita, nell’età in cui ancora, e soprattutto, si cerca se stessi, come ci dice il bellissimo finale, che a me è sembrato quasi felliniano.

Siamo di fronte a un ritratto del regista da giovane, dunque? Forse, anche se Kechiche non ha mai, giustamente, parlato di un aspetto autobiografico del film*, che ha un titolo misterioso in tre lingue  e anche un doppio incipit multi-religioso: una citazione dal Corano e un’altra dalle Lettere di San Paolo, relative al rapporto fra Dio e la luce.

Sappiamo, che Mektoub è un’interiezione araba che allude al destino, che My love è l’espressione inglese forse più conosciuta al mondo, mentre Canto Uno, in italiano, lascia intendere che il film sia solo la prima parte di un’opera più complessa, una trilogia sul destino. Secondo le scarne dichiarazioni del regista, sarebbe già completo il Canto Due, mentre il Canto Tre sarebbe in attesa di finanziatori.

Restiamo in attesa e per il momento ci accontentiamo di questa affascinante prima parte che ha la considerevole durata di tre ore. Nessuna meraviglia per chi ricorda che il regista aveva raccontato La vita di Adele, palma d’oro a Cannes nel 2013, in 179 minuti, quasi che, col passare degli anni, si fosse accentuata in lui la tendenza a dilatare il racconto che spesso torna su se stesso, mantenendo molto alto il nostro coinvolgimento emotivo, grazie anche all’ottima direzione degli attori, ai meravigliosi colori della fotografia bellissima e alla magnifica colonna sonora che accompagna la visione. Nonostante tanta bellezza, espressa in modo così singolare, il film, presentato a Venezia nel settembre scorso, se n’è uscito a mani vuote. Non commento, perché mi mancano le parole! Vedetelo, finché sarà presente nelle sale!

*Ufficialmente, anzi, il film è ispirato a un romanzo di François Bégaudeau: La blessure, la vraie(Gallimard – 2011).

 

 

 

 

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