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Transformers: L'ultimo cavaliere

Regia di Michael Bay vedi scheda film

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La recensione su Transformers: L'ultimo cavaliere

di M Valdemar
2 stelle

 

 

locandina

Transformers: L'ultimo cavaliere (2017): locandina

 


[ Burp.
E il ruttar m'è catartico in questo catarroso tamarreggiar ]

Ora, quantunque schizzati, quotati pezzi di (pseudo)critica illuminato-provocatoria blaterino e urlino al cielo di plastica (dei fanboys) di “sperimentazione visiva”, “video-arte”, “spostamento delle frontiere del Cinema”, eruttando teneramente paragoni osceni-blasfemi-crisantemi (da dio a Kubrick al Divino Otelma), ebbene, tranquilli: Michael Bay è/fa sempre Michael Bay [1].
Un nome, una garanzia (colate di melma lavica dritte in faccia).
Una schifezza.
Oh, stamo a parla' de Transformers 5, eddaje!!
Il senso del cinema bayiano sta banalmente (a mollo, digitale) nell'incipit: sorta di modaiolo, stolido residuato fantasy (da GoT al King Arthur di Fuqua) che, cavalcando con la tracotante stupidità dell'eterno giocatore (baro) d'azzardo, la fintissima onda di un Mito sempreverde quale il Ciclo Bretone, ne scoperchia tutta la lardosa fallacia. L'“epica”, per il suo “autore”, è un affare in cui il manicheismo più decerebrato (noi, la parte giusta; loro, che manco li si incula, quelli da cui xalvare il mondo), l'uso dell'effettistica (da quella digitale a quella sonora-musicale) grondante ignoranza e la messa in scena d'una magniloquenza svuotata di qualsiasi sfumatura (ma anche di mero gusto: insomma, manco il guilty pleasure!) copulano per generare un insulso brandello filmico che oltrepassa il ridicolo (come Stanley Tucci/Merlino … ma caspita, la controfigura quando è a cavallo, si vede pure a occhi bendati! Lo stesso per l'Hopkins più avanti scalciato da Stonehenge).
Stomachevole.
Il resto, a chi interessa, è materia da saga dei Transformers. Spettacolo ebete che cola. Uno script che mescola – con un'incoscienza e una stoltezza che fanno quasi più compassione che pena – la 'spada nella roccia' (da cui il “The Last Knight” del titolo) alla seconda guerra mondiale alle società segrete al mistero delle rocce di Stonehenge, ambendo a “riscrivere” la Storia (in pratica, Superfantozzi), e che propone la solita, immancabile, ributtante sequela di situazioni da cervello non spento ma proprio morto e putrefatto e infettante, e personaggi (tra rientri, quali il militare Josh Duhamel, e novità, come la ragazzina cazzuta in cerca di una famiglia – inserita giusto perché ora va di moda così –, o la creatrice/dominatrice Quintessa) dalle dimensioni d'insozzata carta velina buona nemmeno per pulirsi nobili cavità rettali dopo evacuazioni di solide realtà.
Laddove ci dovrebbe essere ironia (i battibecchi amorosi tra l'americano stupido Mark Wahlberg e la coltissima, rigida inglese Laura Haddock; quelli in odor di bromance tra l'aristocratico Sir Anthony Hopkins e il sociopatico maggiordomo-ninja robot; il John Turturro ridotto all'oltremacchietta tra autobot dai nomi ispanici in quel di Cuba; la liberazione degli alleati di Megatron con tanto di didascalie colorate e “divertenti”; e in generale l'armamentario di battutine tardoadolescenziali: cascano le palle, i bulbi oculari e le rotule!) si ricava invece una sconfortante rassegnazione; laddove si anela dramma (i sentimenti spezzati, l'impresa eroica impossibile, l'imminenza dell'Apocalisse), inevitabilmente, si sfocia in (altrettanto rassegnate) risatine. O, più banalmente, nel tedio.
E se ralenty, esplosioni, boriose autocitazioni (il pianeta Cybertron che sta per abbattersi sulla Terra rimanda ad Armageddon), combattimenti sempre più inverosimili (la CGI è una famelica compagna di vita, nevvero MB?), azione concitata, tagli di montaggio alla membro di canide, omuncoli tra ferraglie mastodontiche che manco si graffiano, scene “aliene” che paiono prese in prestito da Doctor Strange, eccetera eccetera, forniscono la semplicissima, decodificabilissima, cifra stilistica del grandissimo regista (che, va pur detto, rispetto al precedente Age of Extinction concentra maggiormente il campo visivo sull'azione e sui protagonisti anziché spargerla indefessamente su ogni pixel possibile e immaginabile … che abbia un minimo imparato la lezione di George Miller?), a trionfare è la tronfia, tumefatta, insopportabile retorica di Optimus Prime.
Ché, finché non c'era, si stava meglio, davvero.
Un'arma di distruzione di massa che miete vittime più di qualsiasi minaccia aliena paventata.
Ma che è la perfetta traduzione del (rozzissimo) Bay-pensiero, il braccio armato sul campo virtuale di un'idea dell'audiovisivo per le masse meccanica e meccanizzata, robotica e robotizzata, monodimensionale e strutturalmente elementare.
La piccola postilla sul finale (prima dei titoli di coda comunque), è un'anteprima “gustosa” della prossima nuova puntata.
Avanti così.

[1] e per quelli che «Bay gira da dio»: tanto so' ateo.

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