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Kingsman: Il cerchio d'oro

Regia di Matthew Vaughn vedi scheda film

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La recensione su Kingsman: Il cerchio d'oro

di M Valdemar
4 stelle

 

locandina

Kingsman: Il cerchio d'oro (2017): locandina

 

 

 

Inevitabilmente, il déjà-vu è una placcatura dorata sulla tavolozza irriverente-divertente rappresentata dal primo Kingsman: The Secret Service.
Ma pallida, al confronto.
Sterile, facile accumulo compulsivo che rimastica momenti e scene (già) di culto senza la capacità di replicarne lo humour e la sfacciataggine. Se, tanto per fare degli esempi, la gag sessuale passa dall'(irrinunciabile) offerta anale della vogliosa principessina svedese (qui ridotta a pallosa, appiccicaticcia compagnuggia d'amorosi sensi), con tanto di dettaglio sulle innegabili virtù, all'esplorazione vaginale tutta immaginata/immaginaria (l'immersione della mdp pare tratta da un programma pseudomedico televisivo) d'una sbiadita biondina seguito da un (inaccettabile) rifiuto a proseguire il rapporto, la spettacolare sequenza di ammazzamenti in una chiesa musicata dai Lynyrd Skynyrd è qui clonata con una accompagnata “live” da Saturday Night's Alright for Fighting di Elton John, personaggio versione finzionale di sé nel film.
Un tentativo di clonazione andato a male, malgrado (appunto) l'accumulo: allo scatenato, irresistibile Colin Firth si aggiunge il pivello (in ogni senso) Taron Egerton. Sbiaditi entrambi, spenta l'azione, spuri i comprimari (da quelli umani a quelli robotici), svanita sotto una coltre fumosa di ornamenti cromatico-tecnologici ogni forma di ignorante partecipazione collettiva.
Insomma, si guarda senza particolare entusiasmo.
Il disinnesco della grana grossa ironico-dissacrante (i seriosi spionistici, innanzitutto) opera su più livelli: dall'imborghesimento del protagonista (sembra inoltre invecchiato d'una decina di anni) allo spreco d'un Firth in versione “tarda” (e torda, col risultato che lo stesso attore appare meno divertivo e complice, quasi svagato e annoiato), dal poco felice sviluppo delle poche idee – vedi il “luna park” anni cinquanta nel bel mezzo del nulla della foresta cambogiana, in odor di anonimo rigurgito robertrodrigueziano (l'istupidita giocosità di Spy Kids non è lontana … ma lì era assunto consapevole e testuale) – al moltiplicarsi di cambi di location (come fossimo … in un Bond! L'escursione sulle italiche nevi è di un'inutilità che fa tenerezza), dalla puerile trovata della controparte americana (la Statesman, i cui nomi degli agenti si rifanno a superalcolici), incapace di produrre alcunché di realmente divertente o vagamente “nuovo”, alla traccia narrativa eccessivamente insozzata di lacune e toppe sbrigative.
Una (inevitabile) dispersione delle insite virtù residuali che passa sia dalla cattiva gestione dei tempi (comici, inficiati da passaggi a vuoto) che da quella assai inefficace dei personaggi aggiunti: il villain è una Julianne Moore oscenamente sprecata (e oscenamente scritto), Elton John passa dall'essere gustoso cameo a invadente, insignificante figura, Jeff Bridges è un contentino/ammicco che non funziona (aria spaesata, parte inutile), Halle Barry e Pedro Pascal sono stretti nel compitino che eseguono senza lasciare tracce significative, Emily Watson non si sa bene cosa ci faccia, mentre Bruce Greenwood è un presidente USA che mixa turbe e paranoie di Bush e Trump.

Si gioca facile, quindi. Rimangono l'impagabile Mark Strong, vero punto di forza del film, un incipit al fulmicotone (l'inseguimento in auto tra le strade londinesi), la colorata fumettosità dell'azione (quando c'è …) che pure non toglie la sensazione del già visto.
Troppo poco ma sarà probabilmente un successo.
Con prevedibile coda.

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