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Persona

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Persona

di logos
9 stelle

Forse l’opera più sperimentale del regista, che si muove su più livelli, a seconda delle prospettive in cui viene collocato lo spettatore.

Esordisce nel prologo con fotogrammi onirici, quasi come archetipi di un inconscio junghiano: la crocifissione delle mani, lo sgozzamento dell’agnello, la morte che rincorre pazienti in un ospedale, l’organo genitale maschile (censurato in Italia), il proiettore, la pellicola, un bambino che accosta la sua mano a un video in cui è rappresentato il volto di una donna. Vediamo corpi distesi su barelle, in assoluto riposo, una donna anziana in una postura immobile, in stato letargico, un cartone animato che rappresenta una grassa massaia che si riflette nello specchio di un lago e continuamente si  risciacqua il proprio corpo vestito, in un modo comico e vorticoso. Tutte scene come in un sogno, che durano un istante, dando una sequenza dinamica e inquieta, che riprende temi dei film precedenti: il senso della morte, della follia, del Dio assente, della sessualità, della vita.

 

Dopo questo esordio, il film si focalizza su due donne, l’una attrice e l’altra infermiera. L’infermiera convocata dalla dottoressa dell’ospedale psichiatrico dà una descrizione precisa della paziente. Elisabeth è un attrice che è caduta volontariamente in uno stato di completo mutismo, da tre mesi, e nessuna diagnosi ha rilevato anomalie neurologiche, psichiatriche, né stati psiconevrotici. Mentre recitava l’Elettra, di colpo, si è fermata, si è guardata intorno, non esclamò più alcuna battuta ma le venne un’improvvisa voglia di ridere. Da allora è caduta in questo stato di mutismo volontario. L’infermiera Alma è timorosa, non sa se può reggere il confronto con questa paziente, perché la considera psicologicamente un carattere forte, proprio in virtù della sua decisione ferma di chiudere i contatti con il mondo, rimanendo costantemente nel proprio silenzio. Ma Alma non si perde d’animo, prosegue nella missione, tanto più che è riuscita a dare un senso alla propria vita, perché è innamorata dell’uomo dal quale avrà dei bambini e tutto è già ben stabilito per il raggiungimento dei suoi scopi, perché così deve essere, affinché la sua vita prosegua spedita nella sensatezza, con il suo lavoro, che del resto ama. Dunque una donna integrata, soddisfatta di sé e del mondo, addirittura loquace, piena di vita e di amore.

La dottoressa, considerata la costanza dell’infermiera e soprattutto consapevole che Elisabeth non ha disturbi mentali, decide di inviare l’attrice con la sua infermiera presso un’isola in una villa di sua proprietà, affinché Elisabeth, a contatto con la natura, possa riprendere progressivamente il suo stato di normalità e superare l’apatia, con il conforto prodigo di Alma.

 

Ma prima di questo soggiorno è fondamentale segnalare il discorso della dottoressa comunicato all’attrice sul suo stato di salute, con campi e controcampi lucidi, oggettivi, ma al tempo stesso fenomenologici. “Credi che non ti capisca?”, dice la dottoressa a Elisabeth, “tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te e vigile. E allo stesso tempo ti rendi conto dell'abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa: provoca quasi un senso di vertigine il timore di vedersi scoperta, vero? Di vedersi messa a nudo, smascherata, riportata ai suoi giusti limiti, poiché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso, meglio rifugiarsi nell'immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire. Oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c'è bisogno di recitare, mostrare un volto finto, fare gesti voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede, ma non basta celarsi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni sono vere oppure false, sincere o bugiarde: solo a teatro il problema si rivela importante, e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth, capisco il tuo silenzio, questa tua immobilità e perché tu abbia elevato a sistema di vita la tua assurda apatia. Capisco e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finché essa non perda ogni interesse e abbandonarla così, come sei abituata a fare, passando da un ruolo all'altro”. Questo è un discorso magistrale, che meritava a mio avviso di essere riportato integralmente perché è una chiava interpretativa fondamentale, accanto a tante altre, per evidenziare la tematica tra verità e finzione, molto vicina all’esistenzialismo del primo Sartre. Occorre essere veri? Ma come si può essere veri se siamo presi nel mondo, che ci fa essere altri da sé. Inevitabile allora la duplicazione dell’esistenza tra il suo essere per sé e il suo essere per altri, e per eliminare tale conflitto Elisabeth neutralizza il suo essere per altri, ma così facendo sposta solo il problema, perché il suo essere per sé diventa pur sempre una parte, un essere per altri, fino ad annullare l’essere per sé. Non resta allora che ritornare al mondo per conciliare l’essere per sé con il proprio essere per altri, convincersi che è inevitabile l’essere per altri, che attraverso l’essere per altri (la finzione) si realizza l’essere per sé (la verità) mentre difendere a tutti costi l’essere per sé (la verità) si finisce per diventare soltanto essere per altri (finzione).

 

Nel soggiorno sull’isola, Alma e Elisabeth, si legano in amicizia. Alma diventa sempre più sicura di sé, e in questa sua formazione maieutica, grazie al silenzio accogliente di Elisabeth, giunge a confidare segreti intimi: le rivela di essere stata coinvolta in un’orgia del tutt accidentale, per la quale ha provato ribrezzo e piacere, con la conseguenza di una gravidanza interrotta. Ma ora è tutto finito, ora è innamorata del suo uomo.

 

Intanto la storia del mondo passa in quell’isola, entra indirettamente attraverso la televisione e sembra colpire lo stoicismo di Elisabeth, che assiste alla protesta dei bonzi vietnamiti che nel 63 si diedero fuoco a Saigon contro il governo filoamericano di Diem. Qui Bergman accosta l’esistenza per sé alla storia, che è al tempo stesso rifiuto dell’americanismo, della cultura occidentale borghese, della guerra neoimperialistica. Ma rifiuto anche di un individualismo esasperato, rappresentato dal quel fuoco con cui i bonzi si bruciano e che sembrano essere la raffigurazione del destino apatico di Elisabeth.

 

Nel frattempo, il rapporto armonico tra le due donne prende una piega diversa. L’occasione è data quando Alma legge una lettera con la busta aperta di Elisabeth, indirizzata alla dottoressa. In essa è scritto: “Mia cara, vorrei vivere sempre così: tacere, vivere isolata, ridurre le proprie necessità, sentire l'anima malandata cominciare a raddrizzarsi. Alma si occupa di me e mi vizia in modo commovente: credo che si trovi a suo agio e che mi sia molto affezionata, direi quasi innamorata di me in modo inconscio ed incantevole. D'altronde è divertente studiarla: a volte piange su vecchi peccati, una specie di orgia occasionale con un giovane sconosciuto e conseguente aborto. Si lamenta perché le sue idee sulla vita non coincidono con le sue azioni". Dopo questa rivelazione Alma si sente tradita, polverizzata, reificata, e diventata oggetto di Elisabeth, non è più esistenza ma oggettivata, stravolta nel suo essere per sé. Questo annientamento del per sé è comunque la raffigurazione esistenziale della morte, e come nei fotogrammi iniziali, in modo sperimentale, la pellicola si interrompe, visivamente ora si strappa e brucia. Qui il cinema diventa metacinema, per rappresentare l’annientamento di un’esistenza nella sua profondità, perciò annienta se stesso.

 

Dopo questo snodo sperimentale, Alma non è più la stessa, si distacca da Elisabeth, assume gli occhiali scuri da sole, per difendersi, per segnare una neutralizzazione, per sottolineare il suo ruolo di infermiera. Ma non regge in questa presa di coscienza, chiede ancora a Elisabeth di dire almeno una parola, perché quel suo silenzio non è più maieutico, ma un qualcosa di irraggiungibile, di abissale, che scruta senza donare nulla di sé. In un momento straziante Alma le rivolge parole vertiginose: “Si può vivere senza parlare per non dire nulla? Si può mentire trovando delle spregevoli scuse? Non sarebbe meglio abbandonarsi alla pigrizia, all'ipocrisia? Forse si diventerebbe persino migliori se ci si accontentasse di essere come si è. Ma tu non capisci quello che dico: chi è come te è irraggiungibile. La dottoressa dice che sei sana di mente, ma io mi chiedo se la tua follia non sia una delle peggiori. Fingi così bene di essere sana che tutti ci credono. Tutti meno io, perché so quanto sei corrotta".

 

Questo è un altro snodo, in cui la frattura tra Elisabeth e Alma sembra irreversibile, ma proprio da qui, per via del ribaltamento dialettico, Alma diventa Elisabeth, ed Elisabeth è sempre più indifesa e annullata. Infatti Alma diventa scrutatrice, costringe l’attrice ad affrontare i suoi traumi: una gravidanza non voluta, un bambino che desiderava morisse durante il parto, un bambino che crescendo continua ad amarla, ma che lei imperterrita rifiuta, perché vuole solo recitare, vivere nel suo teatro, nella finzione, una finzione che ha finito per svuotarla dall’interno, fino a diventare niente per gli altri ma neanche per se stessa. Oramai il gioco è fatto. Elisabeth è stata svuotata dall’innocenza di Alma, ma Alma ha preso tutto di Elisabeth, persino i suoi tentativi falliti: è stata coinvolta in un’orgia, ma ha interrotto la gravidanza a differenza di Elisabeth; vive una parte, come tutti gli altri, come Elisabeth, ma a differenza di Elisabeth, questa sua maschera di persona la integra con il suo essere per sé.

 

Possiamo dire che Alma sia veramente un’unità dialettica che si è realizzata tramite la negatività-finzione di Elisabeth? Che raggiunge la verità tramite la finzione, come in Hegel, dove, dopo la lotta delle coscienze e per il riconoscimento, il servo diventa signore del signore? O forse, questa benedetta sintesi è ancora una volta una lotta senza tregua, essa stessa una finzione, che assume significato se si abbandona a se stessa nella sua nullità? Una cosa è certa: finzione e verità sono due facce della stessa medaglia, e non è detto che l’una dialetticamente assorba l’altra. E’ forse possibile anche che l’essere per sé e l’essere per altri si confondano, dileguino nel nulla, perché solo così, nel nulla che si viene a creare, è possibile scorgere una nuova luce, imperscrutabile, al di là della verità e della finzione, dove anche il cinema deve necessariamente implodere, con la pellicola che brucia prima del buio definitivo.

 

Questa è un’opera totale, cruda e oggettiva, analitica nella lotta di due esistenza contrapposte che giungono a confondersi, dove la sperimentazione procede di pari passo con questa lotta, dove il nulla sembra alludere a una trascendenza ma anche al senso mistico laico che l’essere umano va visto nella sua finitezza, e non può avere il controllo su tutto, ma può lasciarsi andare alla forze che lo sovrastano, storiche e metafisiche, non in una sorta di passività, ma in un impegno esistenziale per ricercare sé nell’altro, per unirsi nella consapevolezza che nella finitezza è possibile la pietas dell’empatia, senza pretendere la crudeltà di una perfezione infernale.

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