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Persona

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Persona

di AIDES
10 stelle

Rifugio dell'illusione e disperazione del distacco formano l'identità dell'uomo contemporaneo, un'identità inevitabilmente, drammaticamente segnata da dissociazione insanabile. La maschera (a cui allude il titolo) è una perfetta figura del doppio, il doppio è metaforicamente all'origine delle nevrosi che dilaniano questo film in bianco e nero chirurgico, pessimista, cupo, sospeso sul termine sottile dell'unica voce ("nulla") in grado di contenere il silenzio (e arginare la falsità), nell'esistenza deserta, estinta di qualsiasi luce umana e divina. Due donne apparentemente opposte diventano il tormento di una sola anima, la manifestazione travagliata, incontenibile della condizione morale, esistenziale, ineludibile della solitudine. La volontà di amare, ancor prima dell'amore, è un ombra ossessivamente inseguita e mai raggiunta. E 'il richiamo della verità, simile a un vaneggiamento. Il gelo dell'(auto)inganno, la condanna alla menzogna è per ciascuno lo stato condiviso dell'isolamento, e dunque del dolore comune e inesprimibile di ciò che nei confronti della tortuosità della vita è contemporaneamente rifugio e prigione, arma e impotenza, salvezza e angoscia. L'illusione di Alma si disintegra, brucia con la pellicola, e con la sua le nostre, attirate nella solita trappola bergmaniana in cui l'ingenuità, il calore emergono dalla fragilità, e da un lucido e al contempo inconsapevole rimpianto degli stessi, e sono soltanto una superficie della radicata infermità in cui tutti, nella vita come al cinema, siamo immobilizzati. Quando il meccanismo della visione si ricompone, al di là dei veli, si è in un altro spazio, quello frammentato e onirico della realtà smascherata, non comprensibile, afferrabile ma mai pienamente rivelabile, in cui la disperazione accetta l'esito latente, che affiora nell'unico, vuoto risveglio possibile. Persona è il grido della coscienza dinnanzi alla ferita della sua caduta, dell'innocenza fagocitata nei labirinti della complessità. Dell'inattitudine dell'uomo non alla felicità, ma a se stesso.
Lo schermo si fa specchio e finestra, i primi piani si rivolgono a noi per  condividere le colpe e il dolore.
Nell'intellettualismo bergmaniano filtra una rara incisività, una forza quasi istintiva che ne ravviva l'impasse (merito oltretutto di due attrici esemplari, davvero credibili), e che intaglia la sua poetica in un'opera di grande sintesi formale, cardine e forse summa del suo percorso artistico. All'interno del denudamento dell'ipocrisia e della nccessità della comunicazione/-bilità, il cinema si smaschera ripetutamente, i suoi prodigi sono sforzi, i quali più che affermarne la presenza, fniscono col confermarne l'artificialità. A un doppio livello, l'irrealtà riflette la "verità", e viceversa.

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