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David Lynch: The Art Life

Regia di Jon Nguyen, Neergaard Holm, Rick Barnes vedi scheda film

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La recensione su David Lynch: The Art Life

di alan smithee
8 stelle

DAVID LYNCH: l'artista e una ossessione che lo occupa ed impegna quasi fosse una ragione di vita: il tentativo ossessivo di recuperare, anzi catturare, i tratti essenziali di un'espressione in grado di comunicare efficacemente lo stato di un'angoscia che pare coinvolgerlo da vicino, pur restando distante dalla sua diretta esperienza di vita.

Già dal manifesto di questo documentario-confessione girato "in comitiva" e a sei braccia (probabilmente anche a causa della complessità del soggetto preso in esame), emerge inequivocabilmente il volto, l'espressione, il dettaglio dei particolari, tutti estremamente cinefili, dell'autore: capello disordinatamente pettinato con un estro da scultura, mozzicone fumante perennemente tra le dita, occhio a taglio rivolto verso il lavoro che lo sta occupando: con la ricerca perenne di uno sguardo, di una espressione da catturare - che nel Lynch artista impegnato a metà strada tra la pittura e la scultura, o semplicemente sull'assemblaggio di cose, oggetti e materiali - il cineasta si sforza di cogliere, catturare, fissare per sempre.

Nel magazzino della sua abitazione geometricamente essenziale, dove il cemento pare inghiottito e soffocato dal verde lussureggiante ed incontrollato delle le verdi colline hollywoodiane, un David Lynch indaffarato a mescolare pitture, a lavorare oggetti a lungo manipolati attraverso guanti di gomma che ricoprono mani che egli usa anche come pennelli, l'artista cerca di catturare l'espressione dell'angoscia: e dalle opere spesso inquietanti e deformate che scaturiscono dai suoi collage ed accostamenti arditi, questo dettaglio emerge evidente, inequivocabile, qualunque siano le sue origini ed i dettagli del suo generarsi. 

E dire che, raccontandosi dai primi anni della sua infanzia serena all'interno di una famiglia pacifica di genitori e figli uniti e coesi, tutto si può pensare nel regista, tranne che l'angoscia possa essere derivata da esperienze personali realmente vissute.

No, la famiglia non c'entra, ma quando Lynch ricorda il suo primo incubo ad occhi aperti, l'apparizione della donna nuda che gli si staglia davanti (la sua prima esperienza con un nudo integrale) ecco che lo stile complesso del grande regista, le sue ossessioni labirintiche, i dettagli dei volti umani deformati o dalle fisionomie sinistramente animali, emergono e trovano giustificazione già a partire dalla sua prima folgorante esperienza cinematografica d'esordio, ovvero l'angosciante, torbido, fuligginoso e soprattutto mostruoso Eraserhead. 

Un esordio che anticipa egregiamente uno stile visionario con cui il regista ed artista tenta da sempre, con estrema perizia e grande efficacia, di rappresentarci - senza per forza volerci spiegare - l'orrore e l'incubo che si annidano all'interno di una malvagita' insita all'interno di ognuno di noi. L'orrore che crea sdoppiamenti, visioni, incubi, minacce impossibili da decifrare nei dettagli, ma concrete nel malessere che provoca e nel disagio che ritrae sui volti deformati di chi ne è succube e non riesce ad uscirne.

Ed è incredibile che tutto questo sussulto interiore che sa di incubo senza fine, trovi rappresentazione e testimonianza compiuta e concreta attraverso l'opera artistica e cinematografica di un uomo dall'aspetto compassato, dai modi calmi e riflessivi e dall'aplomb aristocratico che Lynch evidenzia e comunica nella sua disincantata e quasi disarmante capacità di raccontarsi senza remore, falsi pudori o ingannevoli reticenze, entro cui molto spesso sono soliti rifugiarsi gli artisti quando si tratta di parlare di se stessi. 

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