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Hiroshima, mon amour

Regia di Alain Resnais vedi scheda film

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La recensione su Hiroshima, mon amour

di Aquilant
9 stelle

La calda intimità di una stanza d’albergo quasi fuori dal mondo che ospita i due amanti cosparsi da simbolica cenere atomica. Eloquenti panoramiche orizzontali ad esplorare minuziosamente un’immane tragedia del secolo scorso. Una voce dolente, strozzata dal cordoglio, a commentare con toni solenni le agghiaccianti immagini di repertorio che si susseguono lentissime, dalle cadenze pressoché irreali. Il lento e dolente incedere della macchina da presa che fa luce sulle macerie umane dell’epoca. “Hiroshima mon amour” esordisce come un sommesso cantico volto a scongiurare ulteriori atrocità della guerra, un atto di condanna nei confronti delle efferatezze dell’animo umano sullo sfondo di un’umanità distorta e sventrata dalla sua stessa mano, un inno tragico innalzato contro la cecità della follia terrena destinata a perpetuarsi di continuo, una testimonianza in bilico tra PASSATO e PRESENTE, tra dubbio e colpevolezza, tra incredulità e constatazione, tra disincanto e pessimismo.

Volti come maschere tragiche, la cui intensità dolente è evocata di continuo in primi piani intensissimi, dallo sguardo rivolto verso un punto lontano nello spazio e nel tempo, dove le illusioni collimano con i disinganni ed il potere della perdita è dotato di un impatto traumatico tale da fare la differenza tra la vita e la morte dell’anima: la forza del cinema di Resnais esplode in tutta la sua potenza in un anno cruciale per la Nouvelle Vague francese (Fino all’ultimo respiro, i Quattrocento colpi, il Segno del leone).

Meno celebrale ed algido rispetto al successivo “L’anno scorso a Marienbad”, “Hiroshima mon amour” è caratterizzato oltretutto da uno schema diametralmente opposto. Laddove la forza straniata del ricordo si riduceva ad una complessa evocazione di fatti ipotetici sospesi tra sogno e realtà disposti in modo da veleggiare in una dimensione vagamente aleatoria, nel presente caso la memoria del passato, rinvigorita da una realtà del presente che poggia su basi ben più solide, prende forza e consistenza riempiendosi del sapore acre del sangue e del fuoco di un’irreversibile passione stemperata dalla morte e dalla vergogna, pervenendo sulla spinta di un’estemporanea autoimmedesimazione ad un vero e proprio stato di idealizzazione amorosa fino a far coincidere l’identità del passato (il soldato tedesco ucciso) con quella del presente (l’uomo di Hiroshima), entrambe investite dello stesso potere dirompente della passione.

La forza del ricordo giunge tramite un processo di elevazione a passare dal particolare all’universale, investendo di sé e della sua potenza dirompente l’intero ambiente circostante fino ad inneggiare apertamente alla propria insaziabile fame di LIBERTÀ, PASSIONE e MORTE. Di conseguenza il gioco della memoria giunge a farsi (iper)doloroso ed intensamente partecipe fino a sconfinare in un dominio vagamente allucinatorio.

Caratterizzato da un uso particolarissimo dei flashback, che procedono in maniera frammentata ed aggregante, del tutto svincolati da una qualsiasi progressione temporale, “Hiroshima mon amour” è da considerare la sublimazione del concetto di AMORE, in contrapposizione a quello dell’ORRORE che aleggia pesantemente nell’atmosfera ancora turbata dal baluginare di remoti bagliori di morte. Ma Resnais è conscio che una tale contrapposizione rischia di dimorare stabilmente nel regno dell’utopia, e per tale motivo affida al potere salvifico dell’OBLIO il compito di pervenire gradualmente ad una reciproca cancellazione delle due realtà dicotomiche. La cosa si rende evidente nella ferrea risoluzione finale impressa sul volto di Emmanuelle Riva, antitesi della Delphine Seyrig marienbadiana che al contrario sa di non poter ricordare o che forse costituisce solamente la replica di un qualcosa che non esiste più o che non é mai esistito perché generato dalla sola forza di un ricordo alimentato dall’ immaginazione, per cui il ricordo equivale a pura sostanza incorporea, immateriale, del tutto aliena alla mente. E da Hiroshima a Marienbad il passo è breve, la realtà violentata che approda e muta pelle nel regno del vagheggiamento. Per ripartire da zero. Per potere alla fine dimenticare. Per continuare a veleggiare nell’oblio.

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