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Philadelphia

Regia di Jonathan Demme vedi scheda film

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La recensione su Philadelphia

di jonas
9 stelle

Lo scontro processuale fra un promettente avvocato e lo studio legale che lo ha licenziato con una scusa si interseca con la sua battaglia contro la malattia mortale che lo sta portando alla tomba. Demme realizza il film definitivo sul tema dell’Aids, un’opera di impegno civile che sa anche commuovere: la confezione hollywoodiana non dà nessun fastidio, tale è la palpabile sincerità d’intenti e la totale mancanza di ruffianeria che traspaiono dall’operazione. Ma in fondo l’Aids è solo il tema contingente, perché il discorso tende a generalizzarsi fino a toccare i nervi scoperti della civiltà americana: non a caso la vicenda è ambientata a Filadelfia (che dà anche il titolo alla bellissima canzone di Springsteen Streets of Philadelphia, che accompagna i titoli di testa), luogo il cui significato etimologico è “città dell’amore fraterno” e dove nel 1776 venne firmata la dichiarazione d’indipendenza (“tutti gli uomini sono creati uguali e sono dotati dal loro Creatore di alcuni inalienabili diritti, fra cui quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”). Per essere chiari: la scelta vincente è quella di affidare il ruolo del difensore al nero Denzel Washington, ossia a un personaggio che dovrebbe aver sperimentato la discriminazione sulla sua pelle (o almeno su quella dei padri) e che invece mostra di averlo dimenticato. È lui il vero protagonista, quello che impara a riconoscere i propri pregiudizi per ciò che sono, e dunque quello che cresce interiormente (le due scene chiave: quando ritira la mano al contatto con quella di Hanks, che gli ha appena rivelato la propria malattia, e quando interviene per dimostrargli solidarietà nella sala di lettura della biblioteca). Ma anche i personaggi di contorno contribuiscono efficacemente al risultato: il brutale machista Jason Robards, la viscida avvocatessa Mary Steenburgen, il gay Antonio Banderas, la madre dolente Joanne Woodward. Quello che funziona meno è proprio Hanks (due Oscar in due anni, che esagerazione): la tanto decantata scena in cui, anziché preparare la deposizione per il giorno dopo, si mette a commentare l’aria di un’opera lirica mascherato da marinaio, io la trovo insopportabilmente gigionesca. Con un altro interprete le stelle potevano essere 5.

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