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L'Atalante

Regia di Jean Vigo vedi scheda film

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La recensione su L'Atalante

di fuoriposto
8 stelle

Il film si sviluppa secondo una linea narrativa semplice. I personaggi sono le creature inconsapevoli di una fiaba. Non ci sono per loro realtà invisibili, tutto è come appare ai loro occhi. I loro sguardi sono infantili, ed è con l’incanto dell’infanzia che guardano al mondo. Passioni e sogni sono esenti da ogni traccia di ambiguità e di contraddizione. Essi vivono in una dimensione pura, in un’Arcadia primordiale ed incontaminata. In questa ottica sono profondamente liberi. Liberi in quanto svincolati dalle complesse dinamiche di un mondo in trasformazione. E il mondo resta al di fuori, come uno sfondo presente ma mai attraversato. E’ semmai lo spettatore (non i protagonisti) a cogliere il contesto, a notare lo stridente contrasto tra la campagna, arretrata e immobile, e la città, industrializzata e vivace ma al tempo stesso molto più squilibrata e contraddittoria. Juliette (Dita Parlo), personaggio-chiave, attraversa le strade parigine, le stazioni e i porti incontrando un’umanità completamente sconosciuta ed insieme inconoscibile. L’unica certezza resta quell’arca di Noè battezzata Atalante, quel marito geloso e infantile e quel vecchio marinaio mezzo matto ma buono. L’attrattiva della metropoli non può che essere passeggera, effimera, perché non è lo spirito della sfida, della conquista, ad animare l’eroina, bensì un fanciullesco bisogno di protezione, di sicurezza. Ed è con lo stesso bisogno che Jean si tuffa nell’acqua per rivedere l’amata. Solamente ritornando all’innocenza, rinunciando ad ogni filtro “adulto”, ci è permesso di vedere davvero quella Juliette acquatica. E l’amore seplice tra Jean e Juliette, il loro mondo onirico dove non ha spazio il disincanto, è la risposta di Vigo ad una realtà problematica, caotica, irrazionale. La visuale che egli ci offre non è un’analisi del mondo, ma una fuga da esso. E questa è in fondo una fuga dalla Morte. L’Atalante va nel senso opposto del tempo, della vita: ritorna alla nascita, all’elemento primordiale, all’acqua. E’una rinuncia (un’impossibilità?) all’esistenza. In questo senso i personaggi non sono caratterizzati psicologicamente, infatti non sono cresciuti, “formati”, ma ancora indeterminati. Sono come pupazzi. In questo senso le atmosfere sospese e le apparizioni fluttuanti sono una realtà più vera di ciò che è effettivamente vero; è il limbo dell’Atalante infatti il luogo dove concretamente vive il sogno, non altrove. Il limite del film si può trovare nel suo non aver seguito fino in fondo questa scelta onirica. La sua rinuncia al mondo è parziale, incompiuta. Il passaggio ad una dimensione “altra” è accennato, incerto. E’ancora abbozzato, come i suoi personaggi, manca di sviluppo. In questo senso l’opera non “sfocia” nel capolavoro, ma rimane ancorata nella sua indeterminatezza. Non lascia vedere, ma solo intravedere tra le righe. E per questo motivo il film corre il rischio di sfuggire alla sua stessa comprensione, di rimanere “in superficie”.

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