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Che Dio ci perdoni

Regia di Rodrigo Sorogoyen vedi scheda film

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La recensione su Che Dio ci perdoni

di scapigliato
9 stelle

Ignacio Navarro Mejía, una delle migliori firme di una delle migliori riviste di critica cinematografica, ovvero El antepenúltimo mohicano, introduce così il suo commento a Que dios nos perdone di Rodrigo Sorogoyen: «Negli ultimi anni il cinema spagnolo sta progredendo verso una maggiore consapevolezza di come deve funzionare un’industria, che per definizione deve seguire una certa organizzazione e certi modelli. Ecco che in questo periodo, di fronte alle offerte più marginali  che di cui di solito si appropriano i nostri maggiori talenti, hanno assunto una certa importanza le proposte di genere, che si adattano a questa visione più industriale dato che seguono modelli riconoscibili, facilitanto la vendita previa del progetto e concentrandosi su un pubblico fidelizzato, senza perdere per forza il propro marchio autoriale. In particolare stanno trionfando tre generi, all’occasione esportabili fuori dai nostri confini: la commedi romantica, l’horror e il thriller».

Più o meno dicevo le stesse cose nei miei vari articoli sul cinema spagnolo, indicando più specificamente la commedia sentimentale (o anche romantica, di equivoci, etc.), l’horror, il poliziesco (o thriller o meglio ancora crime) e la commedia esperpentica. La sostanza comunque non cambia: il cinema spagnolo è il più interessante cinema europeo insieme a quello francese – per altri motivi, tra cui sempre e fortunatamente il genere – e al miglior cinema italia che sembra davvero aver ritrovato la bussola dal 2010 ad oggi. Vitale, vario, sanguigno, coraggioso, tecnicamente innovativo, esteticamente accattivante, artisticamente preparato, il cinema spagnolo degli ultimi vent’anni ha regalato titoli importanti e seminali, per i pochi che hanno voluto seguirlo, e il successo oltreoceano di tanti registi spagnoli, di attori, attrici e film – anche grazie all’assist non da poco del mercato latinoamericano – ce lo confermano.

Anche il film di Rodrigo Sorogoyen è testimonianza di questo energico cinema che pur radicando nel genere cinematografico non perde lo sguardo verso la propria società, la propria storia e la propria cultura. Tant’è che scegliere un tipico plot americano, come la caccia al serial killer, e innestarlo nella cultura spagnola ha previsto un fine lavoro di dettagli sociali, di volti, di ambienti, di linguaggi e moduli narrativa tipicamente spagnoli, o per lo meno europei. Il killer che uccide e stupra indifese ottuagenarie nella Madrid che accoglie Ratzinger per la Giornata Mondiale della Gioventù nell’estate del 2011, nel bel mezzo della crisi socioeconomica e politica spagnola che si è trascina per lo meno fino alla data di lavorazione del film, non ha lo stesso fascino romantico od orrorifico di un John Doe (Seven, 1995) o di uno Zodiac (2007) – entrambi guarda caso di David Fincher, di cui il film di Sorogoyen omaggia il secondo titolo con la già celebre scena della cantina – ma è perfettamente calato nella realtà europea. Ed è qui che Sorogoyen gareggia con Raúl Arévalo e il “gemello” Tarde para la ira (2016): l’approccio realista, metropolitano, scarno, quasi documentale, amplifica l’immaginario criminale ed orrorifico trattato nei vari moduli tematici specifici del genere, ottenendo la trascendeza del reale e la sua  rappresentazione simbolica.

In comune i due titoli hanno anche la grande competenza tecnica, evidente nella messa in scena, nella cura fotografica, nella scelta intelligiente di ambienti e ricostruzioni sociali; per non dire delle scene d’azione: l’impattante incidente con cui si apre Tarde para la ira fa il paio con la rocambolesca fuga del serial killer di Que dios nos perdone quando si cala dal secondo piano di una palazzini.

In ultimo, non va dimenticato il valore aggiunto del parco attoriale. Oltre a Roberto Álamo, premiato giustamente con il Goya 2017 per il miglior attore protagonista, e Javier Pereira, anoressico e disturbante nel suo erotismo distaccato e corrotto, ad unire i due film di Árevalo e Sorogoyen c’è quel “pedazo de actor” di Antonio de la Torre già incredibile in titoli come Balada triste de trompeta (2010), Caníbal (2013) e La isla mínima (2014), che qui, in Que dios nos perdone, cambia totalmente interpretazione rispetto al film “gemello” Tarde para la ira, senza sbagliare un colpo. Recitazione misurata, contenuta ed interiorizzata che permette all’attore di contribuire al successo del film nell’ottica di rappresentare una societa disturbata, atomizzata e sclerotica, e a noi spettatori di godere di una coppia di performace, la sua e quella di Álamo, rare nel cinema europeo.

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