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New York: ore 3 - L'ora dei vigliacchi

Regia di Larry Peerce vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su New York: ore 3 - L'ora dei vigliacchi

di lostraniero
7 stelle

“Filastrocca di primavera / più lungo è il giorno / più dolce è la sera. / Domani forse tra l’erbetta / spunterà la prima violetta. / O prima viola fresca e nuova / beato il primo che ti trova, / il tuo profumo gli dirà / la primavera è giunta, è qua. / Gli altri signori non lo sanno / ed ancora in inverno si crederanno: magari persone di riguardo, / ma il loro calendario va in ritardo!

 

 

Stipsi(sinapsi) storica:

(1) Lillian Gobitis, dolce fanciulla biondiccia nata a Lynn, nel Massasciùsse - proprio tra i roghi appena unti di brina di Salem e le fosse comuni di pargoli Nipmuc nelle paludi di Revere - studentessa che, nell’aprile del 1935, a causa delle sue convinzioni morali e religiose, si rifiutò di rendere onore alla bandiera ‘Strips&Stripes’ e fu sospesa da scuola;

(2) Gordon Hirabayashi, che a dieci anni scrisse un tema in classe ispirato all’uguaglianza tra gli uomini, e venne ripreso dall’insegnante perché i colori contano al mondo e non c’è gusto ad essere ‘colour blind oriented’; il bianco sta sul nero, il giallo è sotto al bianco, ma il giallo è un pelino sopra al nero. A ventidue anni, appena scoppiato il conflitto nippoyankee, si rifiutò di rispettare il coprifuoco imposto a tutti i cittadini di discendenza giapponese e, per tale immane ragione, venne deportato in un campo di prigionia. Poi in vari penitenziari. E venne pestato a sangue, due volte, perché chiedeva indietro dignità e libertà. Sociologo affermato, lo colse il vento freddo del disturbo dell’alzheimer, morì dimenticando tutto. Tutto quanto.

(3) Il piccolo Bobo, ‘nigger’ di nove anni appena, arrestato ad Albany nel 1961. Venne perfino ammanettato da due solerti ‘stelle di latta’, con l’accusa di aver marciato – lui era solo, i genitori nulla ne sapevano della birichinata – in una manifestazione contro la segregazione razziale. In fila per essere schedato come tutti gli altri, venne notato dal capo della polizia che, stupito dalla sua giovane età, gli si avvicinò gentile e gli chiese: “What’s your name, baby?”. La sua risposta non fu “Bobo”, no, no non rispose affatto così. Lui rispose urlando: “Liberty! Liberty!”.

(4) Mary Beth Tinker, una tredicenne iowana di Des Moines, che nel 1965 si presentò a scuola con una fascia nera al braccio per protestare contro le stragi americane in Vietnam. E continuò a sfidare le autorità scolastiche anche quando venne sospesa…

 

 

Defecazione filmica:

Qui c’è anche una bambina. Non la si vede mai. Sta nascosta. Ad un certo punto, e verso la fine di questo film, mentre il suo amico di bisboccia Artie sta a guardare divertito, Joe Ferrone (l’istrionico Tony Musante, qui in una delle sue migliori performance, dopo quel po’ di fortuna toccatagli in alcune serie tv), tenta di strappare dalle braccia di Ed McMahon la giovanissima figlia che più che dormirgli in braccia, ha paura e si nasconde alla lercia storia di cui è incolpevole testimone. “ Voglio solo guardarla! Voglio solo parlarle!”, continua a ripetere l’arrogante, e sappiamo già bene che la sua mente perversa – in realtà – ha già ideato qualche sottile umiliazione pure per l’infante. È il nodo narrativo che sblocca il finale del film, l’ultimo, insopportabile oltraggio che spinge finalmente qualcuno a reagire e ad affrontare i due teppistelli.

Un elemento di natura affettiva, di riguardo protettivo verso i piccoli della specie, che è l’innesco dell’esplosione finale; quando, a ben vedere, tale risultato non lo avevano ottenuto né l’affronto all’homeless ubriaco, né il muso duro con l’ex alcolizzato in cerca di definitiva redenzione, né l’incredibile pantomima ai danni dell’omosessuale, né il confronto generazionale con l’anziano criticone, né gli assalti sessuali alla ragazza e alla donna matura insoddisfatta, né la messa in berlina dell’uomo di colore – pateticamente illusosi di rispondere con la violenza alla violenza dei bianchi –, né – infine – i tentativi di attaccare discorso e briga con i due militari in licenza.

Praticamente, tutta la condizione sociale e culturale degli Stati Uniti di metà anni ’60, passati a setaccio e messi a fermentare dentro al vagone di una metropolitana notturna, non valgono la scintilla della presa di onore della comunità contro due ‘mostri’ (nel senso di ‘monstrum’, proprio, cioè che vengono a portare l’epifania del creato, ciò che siamo nella realtà) che aizzano, sbeffeggiano, offendono, deridono. Pugnalano, magari.

Serve questo stratagemma della sceneggiatura per far impennare il climax (a dire il vero, già rovente), e forse – tra le righe, ma mica tanto – questo passaggio paternalistico nasconde, ad-ombra, una lettura finemente politica sulla situazione degli States di allora. Una piccola, lieve e comunque acidissima analisi che il regista, Larry Peerce (figlio del famoso tenore della Metropolitan Opera, Jan), porta a compimento in punta di stiletto; cos’è un paese che non riesce a scrollarsi di dosso la peste interna della sopraffazione, della negazione dell’altro e della libera convivenza, e che dice di poter esportare – con le buone o con le cattive, sia chiaro – concetti idilliaci di ‘demos cratos’ e di ‘pace, amore & liberta’?

Forse è un miraggio, una fata morgana? O forse è una truffa bella e buona?

 

 

Regolarizzazione oculo-intestinale:

Noi, spettatori onnivori e pazienti quanto basta, sappiamo solo che questo interessante thriller, girato con un nervoso e datato bianco e nero, spezzato volontariamente in due dal montaggio (i primi cinquanta minuti di quasi barbosa costruzione dei vari personaggi, poi i secondi cinquanta di magistrale costruzione teatrale e di sopraffina tensione), ci va via via ricordando altri notevoli esperimenti cinematografici di ‘interazione coagente’ (direbbe l’epistemologa Susan Oyama).

Ne voglio citare due, diversissimi per arte cinematica e per approccio di meccanismo: il primo – e lo chiameremo ‘esempio perfetto di dominio biologico’ – è il dimenticato “La pattuglia sperduta” di John Ford, del 1934, mentre il secondo – indicato come ‘esempio perfetto di dominio culturale’ – è il più che conosciuto “La parola ai giurati” di Sidney Lumet, del 1957.

Nel primo c’è un esasperato tentativo di sopravvivenza del corpo, nel secondo un affascinante dominio della mente. Qui, Peerce fonde e rende potabile la tesi di una miscela tra aggressività e pensiero, delimitazione dello spazio e apertura della morale, con un sacrificio finale del singolo che non riscatta ma quanto meno impone una presa di coscienza al gruppo.

Una tesi flebile, certo, e portata sul grande schermo da un regista che non lo era allora e né diverrà in seguito famoso o quotato, ma pur sempre un granello di sabbia nell’ingranaggio ‘digerente’ americano. Un’America che, proprio in quel fatidico biennio 1967/68, portava più di 500 mila giovani in armi nelle foreste e nei villaggi del Vietnam e del Laos. Molti – gettati di peso in un vagone invisibile di fango, di alberi, di afa e di cielo terso –, non si sarebbero comportati meglio di Joe e di Artie.

 

 

Okay, tirate pure lo sciacquone…

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