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Zabriskie Point

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

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Utente rimosso (signor joshua)

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Zabriskie Point

di Utente rimosso (signor joshua)
8 stelle

Antonioni in terra straniera per la seconda volta, non più alle prese di uno pseudo thriller (Blow Up), ma un “trattato” generazionale, non più nella fredda Londra ma nella desertica California. Come sempre gli accade, anche se ha in mano le chiavi della porta di casa sua, lui preferisce aprirla con il grimaldello, ma considerando la quantità di volte in cui, in quegli anni, il tema del conflitto generazionale e delle lotte studentesche era stato affrontato, non ha certo tutti i torti. Tutta la parte iniziale si svolge abbastanza seguendo i canoni classici, con il solito ragazzino ribelle che non segue la corrente (neanche quella pseudo rivoluzionaria), poi però cambia tutto: Antonioni, come suo solito, odia trattenere la vicenda “in pubblico”, in zone in cui il (o “i”) protagonista(i) non possa avere tanta solitudine, ed anche nei casi in cui questo si trovi in luoghi senza rifugi, è necessario mostrarne la sofferenza. Quindi il regista, dopo averci mostrato una parte dell'universo giovanile “alla luce del Sole”, con rivolte, inquadrature di masse, e tutto il resto, si sposta in un terreno che nulla centra con quello che sta accadendo: il protagonista prende letteralmente il volo (paradossalmente, si tratta quasi di una metafora sulla droga, o comunque su di un qualche tipo di evasione mentale) e si ritrova nel bel mezzo del deserto, insieme ad una ragazza trovata per caso. Ed è in questa circostanza che Antonioni si fa riconoscere: un film apparentemente banale e già visto mille volte, si tramuta in una introspezione sottile e liberatoria, nella mente di un giovane che semplicemente non segue la corrente (e ciò non sta a significare che stia con i rivoluzionari), e tutta l'operazione si fa accesa e sofferta, dai sentimenti forti trasportati in un contesto arido e privo di vita. Antonioni ci mostra come un tempo, noi, avevamo la capacità di parlare costruttivamente degli americani come e meglio di loro (ed oggi non sappiamo discutere nemmeno di noi stessi), e lo fa, sfoggiando il suo arsenale espressivo, il suo studio del colore, la sua magistrale capacità di dirigere gli attori, e mettendo da parte, per un attimo, la sua adorata incomunicabilità (non siamo più in un contesto borghese, ma in quelle anti borghese, e tutto è perfettamente esprimibile). Il tutto fuso in modo delizioso ad una fugace love story, che rappresenta forse il fulcro del potere drammatico del film, dilatata, e consumata interamente nella vallata della morte, nel gesso e nella polvere. Il film, chiude con una parentesi di sfogo registico: ascoltati i discorsi dei ricchi possessori del terreno in cui i due ragazzi hanno trascorso quelle poche ore insieme, che meditano di far piazza pulita e di costruire su tutta la zona, la ragazza in un raptus di follia si immagina di far saltare in aria la loro villa super lusso, e da qui parte una sequenza maestosa, tutta svolta in una landa desertica con, frigoriferi, macchine e case che saltano in mille pezzi e con grandi fiammate (una bella metafora contro la società consumista). Un'opera “elettrica” sia nella musica (dei Pink Floyd) che nelle immagini, ricco di suggestioni, con delle interpretazioni sentite, e con un regista atipico, ma in forma smagliante.

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