Regia di Alan Schneider, Samuel Beckett vedi scheda film
Una riflessione per immagini sulla coscienza di sé come percezione esterna, da parte di noi stessi, col tramite degli altri esseri che vediamo come nostri simili e che, a loro volta, ci riconoscono come tali. La realtà è cosparsa di specchi, in cui continuamente ci riflettiamo: specchio è non solo lo sguardo degli altri, ma ogni oggetto che rechi la nostra impronta, una registrazione di come siamo od un ricordo di come eravamo. L’occhio della telecamera è la muta incarnazione di questo modo perennemente vigile; il vecchio che strenuamente si nega all’obiettivo non fa che esaltare il ruolo di quest’ultimo come centro della visione cinematografica, come prospettiva da cui le cose, le persone e le situazioni vengono inquadrate ed iniziano ad esistere. Tale punto di vista è sovrano incontrastato nella (ri)creazione delle storie, ma non è come un “Big Brother” che domina la scena dall’alto, è, invece più simile a un fantasma, che si mescola agli uomini, che gode della massima libertà di movimento, che può superare ogni ostacolo, penetrare ogni luogo e, addirittura, possedere i personaggi, fino a vedere attraverso i loro occhi. E, in quanto spirito, l’anima del cinema può anche uscire dallo schermo e venire a dettare legge nelle nostre menti, sovrastando l’azione dei nostri stessi sensi. Il volto di Keaton, ostinatamente nascosto, infonde da subito, nello spettatore, il sospetto di una mostruosità inguardabile: in ciò si realizza l’estremo miracolo dell’arte filmica, ossia quella straordinaria magia che, mediante l’omissione, riesce a rendere visibile l’inesistente. Un prodigio inquietante e strepitoso allo stesso tempo.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta