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Leatherface

Regia di Alexandre Bustillo, Julien Maury vedi scheda film

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La recensione su Leatherface

di alan smithee
4 stelle

Nel genere horror la serie “tutto iniziò così” ha già dato luogo a molti prequel di noti capostipiti, a loro volta spesso già oggetto di remakes, reboots e ogni altra diavoleria commerciale protesa a sfruttarne il successo e la notorietà.

Come per il recente Annabelle - il cui valido seguito di successo godeva di una scrupolosa ricostruzione storica anni ’50, e di almeno due attori di razza (Anthony LaPaglia e Miranda Otto) – circostanza piuttosto insolita o comunque non scontata in campo horror - arriva ora il film che ci spiega come nacque l’incubo rappresentato dal micidiale “Faccia di cuoio”: che anche lui è stato bambino, e non è nato malvagio e crudele: sono state le circostanze, la famiglia che lo ha sempre circondato – la stessa terrificante del film capostipite di Tobe Hooper e dei successivi remake, solo qui con ogni elemento ringiovanito, ma non meno folle o affamato di carne umana. Mammina regala al suo figlio cadetto una motosega come regalo di compleanno, invitando il pargolo a provarla su un ospite catturato per l’occasione, ma nulla da fare. Saranno altre ed ancor più sconvolgenti circostanze (ammesso sia possibile) a far maturare in lui il mostro sanguinario che in molti conosciamo.

Nel contesto di una vera e propria battaglia tra uno sceriffo (Stephen Dorff) la cui figlia è rimasta vittima della pericolosa famiglia di pazzoidi carnefici, e la madre del nostro ragazzo (Lili Taylor), i figli di quest’ultima vengono tolti alla accurata tutela della genitrice per essere internati in una casa di cura per giovani malati di mente. Dieci anni dopo, non senza il prezioso contributo di mammina, il ragazzo, ormai un ometto fatto e sulla via del giudizio, riesce a darsi alla fuga con il fratello obeso e due altri piccoli “assassini nati”, portandosi al seguito una onesta quanto incredibilmente ingenua giovane e bella infermiera.

Nella fuga concitata dovranno tenersi alla larga dal temibile sceriffo, accecato dall’odio e cercare di portare a casa la pelle, per ritornare all’amabile ménage familiare con mamma e nonno, nella tetra fattoria ove tutto ebbe inizio (nel film capostipite). Nella lotta per la sopravvivenza, il nostro ragazzo “perderà la faccia” – nel vero senso della parola - ed inizierà a cingersi quel residuo di fisionomia con lo scalpo della sua vittima “del cuore”.

La storia è davvero poca cosa, la costruzione e la sfumatura con cui vengono presentati i personaggi, ancora meno: Stephen Dorff passa dal dolore acuto del vedere i resti di una figlia spappolata, a parlare del più e del meno pochi secondi dopo; l’infermiera si comporta come una stupida ingenua e merita senza appello tutto ciò di atroce a cui è destinata; il nostro Leatherface passa dall’essere un angioletto timorato tutto giudizio e buoni propositi, all’assassino in motosega che conosciamo, con poco più di un battito di ciglio.

Lili Taylor, lo ammettiamo, è invece perfetta nel ruolo di mammina.

Dal film - opera made in Usa della coppia francese di cineasti esperti del genere Bustillo/Maury - non pretendiamo certo plausibilità, ma un po’ di assennata costruzione e descrizione di caratteri e sfumature forse ed ingenuamente ce la aspettavamo davvero; non mancano invece efficaci scenografie da mattanza che costituiscono un valido impressionante teatro di scena per un massacro annunciato e messo a punto come da copione.

Il compianto Tobe Hooper figura nei titoli come produttore esecutivo, circostanza che ci crea più di un sentimento di malinconia.

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