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La cosa

Regia di John Carpenter vedi scheda film

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La recensione su La cosa

di AIDES
8 stelle

Film come questo ci consentono -ci costringono- a riconsiderare le nostre idee sul cinema. Il genere che mantiene il suo carattere popolare (uso questo termine per comodità, ma va da sé che sia alquanto problematico), “horror” o “fantascienza” che al contempo servono da base per discorsi più ampi e attuali, che in qualche modo li trascendono. E a dire il vero la storia dell’industria cinematografica non vanta molti titoli del genere. Gli Usa sono il luogo in cui più ha agito una spinta propulsiva verso una diffusione esterna dell’immaginario popolare e delle forme della propria cultura, veicolando i suoi messaggi sulla scia lunga di un' influenza totalizzante storica e geopolitica. Nel cinema il fattore spettacolo ha finito quasi sempre per surclassare gli elementi di genuinità che le manifestazioni artistiche e popolari di quel paese in nuce contenevano, per di più ricorrendo, ogni volta che è stato possibile, alla riproposizione seriale dell’idea e della fonte originante. L’apparato-Spielberg è l’esempio lampante della strumentalizzazione sistematica dell’immaginario e della fantasia popolare, con la chiave di un ingenuità accortissima. John Carpenter, invece, è tra i pochi artigiani del cinema americano ad essere approdato ad un ambito artistico, e ad aver mantenuto un’onesta intellettuale che lo rende oggi attendibile e interessante. Stabilendo un ideale, concreto filo comune del discorso incentrato sulla deriva orrorifica e paranoica dell’era globale, che lo lega ad altri nomi di spicco della cultura americana, dagli abissi letterari di Lovecraft a King, i quali non hanno bisogno di presentazioni, al rock oscuro dei Blue Oyster Cult degli anni’70, guidati dalla mente di Sandy Pearlman, autore di testi visionari e occulti, espressione di una a noi vicinissima luce finale (Astronomy).  Da questi nomi si giunge facilmente a quello attualmente cruciale: David Cronenenberg, che non è statunitense, ma pur sempre nordamericano, e altro riferimento imprescindibile attorno agli scenari sconvolti e aberranti delle contaminazioni e della malattia umana.
Ecco allora che il fumettistico, orripilante, ipereffettistico e spettacolare La Cosa si fa altro, vivendo in sé una medesima mutazione, trasformandosi da prodotto industriale (di scarso successo tra l’altro, e non casualmente..) in prodotto culturale, ma in senso attivo, ormai sovraculturale. E rendere il “giocoso” della fiction e dell’horror movie un quadro aspro e agghiacciante. L’ambientazione di un rigor mortis incombente. Perché proprio quell’impronta a tratti così marcatamente pop, della normale e impeccabile confezione da sanguinolento fanta-thriller, arriva a reagire con una sceneggiatura serrata, piena di ritmo e tensione, fino a vertere la finzione spettacolare in immagine malata, assurda della stessa componente falsa, satura, sintetica che permea il nostro tessuto onnivisivo e percettivo contemporaneo. Basta osservare bene soprattutto quei volti, strani, pallidi, patologici, caricati dal saturo fotografico (D.Moffat/Garry, P.Maloney/Bennings su tutti, ma anche C.Hallahan/Norris, A.W. Brimley/Blair, D.Clennon/Palmer, R.Dysart/Copper, R.Masur/Clark), mero plasticume a momenti, e che allevano in sé la precarietà vacillante delle cellule mutanti, opportunamente affiancati, confusi poi con quelli della normalità presunta, di Childs (K.David) o MacReady (K.Russell), o Nauls (T.K.Carter). Facce di esseri ormai ignoti, posseduti, sempre a un passo dalla deformazione, dall’impazzimento biologico strisciante. Aggiungervi, da parte nostra e ipoteticamente,  la maschera di un politico o di un cardinale  tra i tanti dell’orgia decadente novecentesca e attuale significherebbe non caricaturizzare,  ma far esplodere definitivamente il senso di questo esempio di cinema serio, e allo stesso tempo, per forza di cose, distaccato e grottesco, quasi comico a tratti, rafforzando così la finzione e la distanza lucida (Windows è palesemente un buffo pupazzo nel momento in cui viene aggredito dalla Cosa, poi gridano a MacReady «buttagli una bomba, buttagli una bomba!!»). Una virata dell’estetica da cinefumetto (ad es. la scena del ritrovamento dell’astronave) verso un insospettato iperrealismo. Realismo amplificato della finzione che continua a covare sotto le sue manifestazioni. Film che ha al centro il bacillo divoratore dell’imitazione, ma il cui potere mimetico è capace di smascherarsi. La Cosa è un male oscuro, che agisce a livello sottocutaneo della realtà (e non è un caso che il fuoricampo è una delle cifre stilistiche del film, ma anche le rappresentazioni del corpo, della pelle, e le sue sconvolgenti lacerazioni, esplosioni), aprendo alla psicosi attuale del non conoscere l’altro (e del non conoscersi), e ciò che accade, e dell’incertezza fattasi normalità. Male che non ha nome, e non può averlo, se non il più generico. Virus esterno ma nutrito in grembo da corpi predisposti, morbo dell’essere umano che cova in sé la biologia del proprio annientamento. E scintilla dalla quale divampa quell’essenziale bestialità di ogni individuo che può aver esiti incontrollabili. Il film non mostra il finale, ciò è la fine. Si pone in attesa, ma l’esito è intuibile. Semplicemente, non vediamo come avviene, dato che non c’è limite alle possibilità metamorfiche del male fattosi sempre più vicino, potente, incontrollabile, reale, assurdo. E carne. Carpenter non è Kubrick o Tarkovskij. Non sale su un empireo estetico. Il suo punto di vista è interno, non "al di sopra", nella misura in cui affronta un tema sullo stesso piano, conservando il tono medio-basso-popolare e diretto del discorso, per rimandare segni inquietanti alla/della ugualmente appariscente superficie del nostro disfacimento. Non si vuol qui caricare di eccessivi significati un film tutto sommato pensato per il pubblico, come moltissimi altri. Ma bisogna anche dire che le opere hanno vita propria, al di là della macchina o mente creatrice. Hanno il loro inconscio, preconscio o come più vi aggrada chiamarlo.
La Cosa ha materia e peso, e qualità del racconto che aggiungono un valore decisivo alla dimensione semantica del film. La prima inquadratura, bellissima, già vacillante, divisa tra il bianco dei ghiacci e l’azzurro murato da rocce simili a fauci, sul cupo e ipnotico battito di una musica dai toni bassi, sospesi, e probabilmente synth a fare da sfondo e atmosfera obliqua, effettata in metafisica tensione. L’inseguimento estenuante all’identificazione e soluzione (impossibile) del problema (e per lo spettatore, allo scoppio del disastro), e un accumulo continuo, a dosi perfettamente calibrate e distribuite della suspense (le sequenze, i dettagli, il non detto, l’ellissi, i raccordi e le ambiguità sono davvero tutti al loro posto), sfociano nell’assedio della paranoia che avrà fine soltanto con lo spossamento. Un altro segnale forte, questo. La resa all’impotenza, l’esaurimento delle risorse. Il rimettersi forse a un destino superiore, il quale rimane pur sempre segnato, anche se, ad un livello più alto, pur sempre aperto. Ma questo finale aperto per noi non è che una falla dalla quale esce soltanto nero sentore e pessimismo. Un male inestirpabile che deve necessariamente allargarsi al pianeta, e fare il proprio, inderogabile corso.

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