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Chiamami col tuo nome

Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film

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La recensione su Chiamami col tuo nome

di lussemburgo
8 stelle

 

Non è ovviamente un caso che il primo nome nella lista dei ringraziamenti alla fine di Chiamami col tuo nome sia quello Bernardo Bertolucci, tanto il film di Guadagnino è pervaso della medesima diffusa sensualità che contraddistingue i lavori del regista parmigiano. Le assonanze con Balla da sola, per il tema dell’iniziazione amorosa, o l’estate assolata della Luna, i cambiamenti stagionali di Novecento e i frequenti panorami padani sono elementi evidenti in un film che, a queste influenze, miscela anche la forte impronta del suo sceneggiatore principe, James Ivory. Questi pare ripercorrere, in altre parole e altri tempi, Maurice, con l’ambientazione italiana di Camera con vista tanto cara a Forster che la riteneva un’Arcadia della sensualità.

Chiamami col tuo nome è fatto memorie e di sentimenti, rimembranze auliche di citazioni finanche dotte, commiste ad un’influenza rosselliniana della storia come retaggio artistico da disseppellire (o da far emergere dai flutti) e da ripercorrere per ritrovarne l'influenza nella propria vita, così come di quella sarabanda dei sentimenti e di attrazioni renoiriane al limitare dell’acqua, tra le gite sull’erba e le più rigide regole dei giochi, e di certa leggerezza rohmeriana. E di sedimenti letterari vive anche il giovane protagonista, cercando di interpretare le proprie pulsioni ormonali nella prospettiva del vissuto altrui, cercandovi un senso ed un modo personali fin quando non si abbandona alla vita e alla sua diretta scoperta in prima persona.

Guadagnino privilegia l’armonia della cultura e della spensieratezza economica per costruire un ritratto di famiglia in un esterno in cui l’italiano è parlato solo dalla servitù o da strane e rumorose amicizie che, insieme, fanno parte di un sottofondo politico e di un sottobosco sociale che solo lambisce i protagonisti, concentrati sulla propria ricerca della felicità e della musicalità delle giornate, rinchiusi in una bolla di ebbrezza estiva, estetica e sociale che li priva di inquietudini che non siano interiori o culturali.

La stessa ambientazione all’inizio degli Anni 80, in pieno “edonismo reaganiano” e prima dell’apocalisse dell’Aids, permette alle temporanee lontananze di permanere misteriose assenze, ai contatti di svolgersi solo vis-a-vis, all’informazione di giungere ovattata dall’indifferenza e alla letture di riempire le ore dell’indolenza, mentre il sesso è ancora una promessa romantica, una scoperta quasi innocente e senza conseguenze.

I telefoni hanno ancora tutti il loro cordone ombelicale, le feste rimangono riunioni di individui, le sigarette un’economica trasgressione e i mezzi di trasporto sono luoghi comuni per brevi incontri e lunghi addii. Il tempo stesso si dilata in giornate interminabili e indefinite, fin quasi a sembrare sconfinato come le emozioni e manifestare solo troppo tardi la sua limitatezza, quando ogni stagione vede avvicinarsi il suo termine rivelandosi come soltanto preludio ad un’altra.

Se Bertolucci privilegia il huis-clos, spesso soffocante, in cui consumare passioni segrete e segregate dove l’incesto è una tentazione e l’omosessualità una colpa nascosta dai conformismi o una suggestione tentatrice, Guadagnino assume la frontalità della relazione, pur nella convenzione della sua discrezione, lasciando campo ai sentimenti e alla reciproca attrazione tra lo studente liceale e il ricercatore universitario. Glissando con romantica noncuranza sull’illecito della disparità anagrafica tra adulto e minore, seppur consenziente e seduttore, il rapporto tra i due giovani si ammanta di classicismo, di fascino antico e quasi rituale, di reciproca scoperta e di finale disvelamento di pure emozioni.

Il regista assume il punto di vista di Elio, lasciando Oliver nel cono d’ombra dell’indeterminatezza, ne segue gli scarti violenti e l’eleganza dei gesti, ne culla gli interessi letterari ed erotici accompagnandone l’indecisione tra la ragazza e l’uomo in una complessiva perdita dell’innocenza infantile che, più che consapevolezza dell’amore, è la piena scoperta del dolore. Perché, al di là della leggiadria dell’ambientazione e dell’apparente noncuranza dei gesti e della leggerezza dei rapporti (così simili, per luoghi e tempi, all’incipit di Giovane e bella di Ozon), non si sfugge al melò, all'impossibilità di armonizzare vita e desiderio, società e persona, famiglia e amore. Perché ogni cosa bella è solo una parentesi e quel che rimane è la vita, con le sue storture e sofferenze e le sue ingiuste conseguenze, a cui non resta che abituarsi o rassegnarsi. Il calore non è più quello del sole, che irradia il corpo, ma il fuoco artificioso di un camino, che riscalda e illumina soltanto a tratti l’inverno dei sentimenti.

Se molti personaggi paiono rimanere solo sullo sfondo o limitarsi a piccole indicazioni esteriori o a caratterizzazioni apparentemente caricaturali, è perché il film sposa senza esitazione lo sguardo e il corpo di Elio, i suoi moti rapidi, i modi bruschi le incertezze e le profonde superficialità, l’egotismo istintivo e irrequieto dell’adolescenza, l’esuberanza del corpo e l’incandescenza della passione, così come l’abisso improvviso del rimorso e l’indecenza della rassegnazione. È infine nel dialogo, che è in realtà un monologo, colto e prolisso sebbene mai enfatico o saccente del padre al figlio, che si palesa non solo una sottotraccia narrativa portante (la complicità o indifferenza dei genitori), ma anche una sofferenza e un vago sentore di rimpianto che spalmano alcune, poche note autobiografiche di un'ulteriore coltre di melodramma questo ballo di famiglia a Crema.

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