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Brazil

Regia di Terry Gilliam vedi scheda film

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La recensione su Brazil

di SredniVashtar
9 stelle

1984, però a colori. Un film da non perdere.

Vidi Brazil in prima visione, quando uscì. Fuori dalla sala ero perplesso, chiedendomi se avevo assistito a una boiata pazzesca o a un capolavoro. A 33 anni di distanza opto per la seconda. È uno dei mei film cult (ma immagino che di questo non vi interessi granché).

 

È un tipico prodotto di fs sociologica inglese, quella che – per dirne una – ha prodotto il film più angosciante di sempre (Non mi lasciare). Gli inglesi, molto meno buonisti degli americani, usano spesso la fs per puntare il dito contro le distorsioni delle società contemporanee, portandone all’estremo alcuni aspetti e guardando che succede (un esempio: Condominium di James Ballard). Gilliam (americano di nascita ma inglese d’adozione) non fa eccezione e in più ci mette il suo personale e riconoscibile tocco in ogni scena, che dona all’opera un’inconfondibile vena grottesca. Il grottesco è il segno distintivo della pellicola, che in ciò la distingue completamente dall’ovvia fonte di ispirazione (1984 di Orwell – Gilliam infatti lo voleva chiamare 1984 1/2).

 

La trama è semplice: un impiegato si trova invischiato in un problema amministrativo banale, che alla lunga sarà usato come pretesto per la sua rovina.

Più importante è il tema del film, che è la Burocrazia in una finta democrazia (cioè una dittatura simil-orwelliana coi guanti). Nella resa del moloch burocratico Gilliam non è da meno di Kafka, in primis con una modulistica elefantiaca. Ma c’è di più: il tocco grottesco del regista fa perfetto gioco in piccoli particolari rivelatori: le tubature sovradimensionate, le lenti di ingrandimento davanti ai minuscoli schermi dei computer, i tavolini in condivisione tra stanze diverse, la macchinetta per le scelte importanti, le portate dei ristoranti di lusso. Tutto rende l’idea di una macchina inefficiente, stupida e nondimeno pervicace, dove un errore di battitura può significare la differenza tra la vita e la morte. Gilliam ci consegna una società stolida e priva di sentimenti (cfr. l’ultimo di Ken Loach: Io, Daniel Blake), in cui contano i privilegi di casta e il resto è lotta per la sopravvivenza.

La creatività di Gilliam, qui al suo meglio quanto e più che ne L’esercito delle 12 scimmie, ci mostra la miseria delle periferie in confronto al lusso malato e macrocefalico dei luoghi vip. Tutto è in contrasto con tutto, tutto sta in piedi in attesa di crollare, la serenità è solo di chi rinuncia a ogni idea di giustizia (particolarmente riuscita la figura di Michael Palin, il torturatore ufficiale del ministero, bravissimo nel suo lavoro perché vuoto come un guscio vuoto).

In questo contesto si muove Jonathan Pryce /Sam Lawry, un po’ amorfo figlio dell’establishment, privo di ambizioni e dedito al sogno ad occhi aperti che lo allontani da una realtà grigia di cui non vuol cogliere i privilegi che per nascita gli spetterebbero. Più che un vero protagonista, è il filo conduttore del film, colui che attraverso i propri incontri ci fa conoscere i diversi piani di realtà: quello del governo opprimente e dittatoriale, quello della gente comune ridotta alla mera sopravvivenza, quello dei ribelli che lottano contro il sistema. Lawry sogna una donna immaginaria con cui vivere una storia d’amore e crede di riconoscerla in Kim Greist / Jill Layton, una ribelle. Dalla stessa parte della bella sta un irriconoscibile Robert De Niro / Harry Tuttle, mentre il suo contraltare è uno spassoso Bob Hoskin /Spoor, che contribuisce al lato comico-grottesco del film. Altri caratteristi di ottimo livello sono Ian Holm (qui Mr Kurtzmann, il capo di Lawry) e Peter Vaughan / Mr Helpmann, il potente ministro amico di famiglia.

Oltre alla figura di Lawry, che progressivamente “prende coscienza” (come si diceva negli anni ’70), l’altro filo conduttore della pellicola è il banale motivetto Aquarela do Brasil (da cui il titolo del film), declinato in tutte le salse e le sfumature da un abile Michael Kamen (il fratello bravo del belloccio anni '80 Nick). La scelta di accompagnare un’atmosfera desolata e opprimente con una canzoncina disimpegnata interpretata da un cantante confidenziale americano (quelli più finti di un biglietto da tre dollari) è assolutamente vincente, se non addirittura geniale: rende perfettamente l’idea dell’ipocrisia della società, che canticchia mentre conduce i buoi al macello.

 

Gilliam, con Brazil, è riuscito a raccontare una storia triste e disperante – quanto 1984 – in cui però la distonia tra armonia e desolazione non si fonda sull’uniformità orwelliana di un’atmosfera costantemente plumbea, bensì sui contrasti tra oro e fango, tra apparenza sostenuta con lo spago e miseria interiore ed esteriore il più possibile celata. Se leggere Orwell richiede ogni tanto di aprire le finestre e guardare il cielo per non restare vittime del testo, Brazil si può anche godere fino (quasi) la fine, credendo di guardare un film satirico. Non lo è: è una pillola di veleno a lento rilascio. Ottimo davvero.

 

Terry Gilliam (regia)

Tocco inconfondibile. Mai così ispirato.

Jonathan Pryce

Il sosia di papa Francesco. Adeguato. Può risultare irritante come e più di James Stewart (l’uomo che non sapeva che fare delle proprie mani), ma è la sua parte.

Kim Greist

Perfetta nel doppio ruolo di angelo dei sogni e camionista ribelle.

Robert De Niro

Al posto suo potevano ingaggiare il mio idraulico, tanto è irriconoscibile, ma credo si sia divertito più di tutti.

Bob Hoskins

Si è divertito quasi quanto De Niro.

Ian Holm

Recitazione a livello del personaggio, cioè eccellente.

Peter Vaughan

Ben misurato nella parte.

Michael Palin

Faccia da piazzista di merce scaduta, senso etico dimenticato a casa: ottimo.

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