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Il libro di Henry

Regia di Colin Trevorrow vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il libro di Henry

di mck
6 stelle

Un bel film che poco prima della fine crolla, collassa e si frantuma arrendendosi ad un involontario auto-sberleffo etico-morale.

 

Suddiviso nettamente e monoliticamente in due sezioni (c’è un prima e c’è un dopo, e il secondo segmento mediamente non fa rimpiangere il primo), il film in grande e larga parte convince, avvince e muove a dolorosa commozione [senza troppo risultare né semplicistico né ricattatorio, sia dal PdV della logica e della sospensione dell’incredulità - il leggere un (audio)libro in sequenza cronologica e agire di conseguenza rispettando i passi senza andare subito alla fine… -, sia da quello recitativo, con un vuoto empatico “colmato” dagli altri personaggi che vanno a “rimpiazzare” l’assenza venutasi a creare]. Poi, come accade ad esempio per un altro rapporto madre-figlio, quello sviluppato in “BabaDook” di Jennifer Kent, ma concentratamente sul pre-, sul sotto- e sul finale vero e proprio, succede qualcosa

 

[che non è quello stesso qualcosa che ha fatto “licenziare” Trevorrow da “Star Wars IX - the Rise of SkyWalker” (saga lucas-disneyana che di siluramenti, sostituzioni, rimaneggiamenti, riscritture, affiancamenti, back-up eritorni ha fatto incetta e scorta rendendo questi interventi un marchio costitutivo, dato che oltre a SW9, che prima di Trevorrow aveva già visto allontanarsi in precedenza pure Rian Johnson, il regista di “Star Wars VIII - the Last Jedi”, anche i due film sinora usciti della Star Wars Anthology, ovvero “Rogue One” e “Solo”, entrambi “A Star Wars Story” che, rispettivamente, hanno subito un aggiustamento in corsa per mano di Tony Gilroy sul lavoro svolto da Gareth Edwards e un cambio di direzione a produzione già ben avviata con Ron Howard a rimpiazzare Phil Lord e Christopher Miller), perché finora Trevorrow dei film da lui diretti ha co-sceneggiato, con Derek Connolly, “solo” i tre “Jurassic World” (quello da lui di retto, quello che no e il prossimo, in produzione, per il quale tornerà dietro alla MdP) del marchio spielberghiano, e “nemmeno” l’opera che ad oggi svetta nella sua filmografia come migliore, ovvero “Safety Not Guaranteed”],

 

e la morale s’inceppa, lasciando l’etica spaesata: il finale, per quanto terrificante (e mi riferisco all’oblio tramite incenerimento, che vorrebbe intendersi cauterizzante), entra sì in sintonia con una frase posta all’inizio, ma, d’altro canto, d’accordo il voler bene ai vivi, però la dimenticanza oggettuale (the Book of Henry) sancita dal fuoco e la sostituzione fisica dei vivi coi morti, messa giù in questo modo, anche no, eh: cioè, una cosa (il ricordo anche tramite "feticci") non esclude l’altra: si può vivere e ricordare senza dover tramutare in nient’e nulla il “testamento”, l’eredità, e la terminale concordanza fraterna filial-genitoriale fra luce accesa/spenta e porta aperta/chiusa risuona più come uno “sberleffo”, se non un collassante crollo e, paradossalmente, una resa. Peccato (ma è stato bello finché è durato).

 

 

* * * (¼) - 6.25

 

Cast, eterogeneamente a tratti molto buono, a tratti un po' meno: Naomi Watts ("Mulholland Drive", "Eastern Promises", "Twin Peaks 3 - the Return"), Jaden (Lieberher) Martell ("MidNight Special", "It", "Knives Out"), Jacob Tremblay ("Room", "Good Boys", "Doctor Sleep"), Dean Norris ("Breaking Bad", "Better Call Saul"), Maddie Ziegler (da Sia - "Chandelier" & C. - al "West Side Stor" by Spielberg), Sarah Silverman, Lee Pace, Tonya Pinkins...

Fotografia: John Schwartzman. Montaggio: Kevin Stitt. Musiche: Michael Giacchino.

 

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Voi, sanguinose infanzie: assonanze, consonanze, risonanze.

 

Giovane esploratore Tobia: parte per la gita scolastica e non sa che fare.

Gira la testa e vede un vagone bruciare: tira l'allarme e salva la ferrovia.

 

…“MoonRise KingDom” di Wes Anderson, “the Young and Prodigious T.S. Spivet” di Jean-Pierre Jeunet, “Pengwin Highway” di Hiroyasu Ishida

 

Da “Edwin MullHouse: the Life and Death of an American Writer (1943-1954), by Jeffrey CartWright - a Novel”, l'esordio del 1972 di Steven Millhauser, uno dei maggiori scrittori postmoderno-massimalisti (Fanucci, 2005; trad. di Bernardo Draghi): “Che nessuno venga a raccontarmi che l'infanzia trascorre in un presente senza tempo: è piuttosto una febbre di futuri, un ardore di continue anticipazioni.”     

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