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La battaglia di Algeri

Regia di Gillo Pontecorvo vedi scheda film

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La recensione su La battaglia di Algeri

di Aquilant
8 stelle

Allo scopo di accostarci nella maniera giusta a questa “Battaglia di Algeri”, film di impegno civile e di grande rigore della messa in scena, dal ritmo secco e scattante, concepito come un resoconto documentaristico degli avvenimenti che nel corso di alcuni anni, dal 1954 al 1962, portarono all’indipendenza del popolo algerino, è necessario premettere che la cifra stilistica dell’intero film è basata, almeno in parte, su alcuni artifizi tecnici, nel senso buono della parola ovviamente, di quelli cioè che contribuiscono a dotare un’opera della miccia in grado di accendere la scintilla dell’ispirazione artistica ed a far sì che un’opera a tanti anni di distanza possa ancora risultare di un’attualità a dir poco sconvolgente.
Il compianto Pontecorvo (cinque soli lungometraggi in tutto l’arco della sua carriera, ma almeno altri due capolavori al suo attivo, il terzomondista “Queimada”, vera e propria requisitoria marxista in immagini sui mali del colonialismo e quel Kapò talmente inviso a Rivette al punto di tacciare il regista di “abiezione retorica” a proposito del carrello in avanti in occasione della scena del suicidio di Emmanuelle Riva) sceglie di equiparare le varie sequenze dal punto di visto tecnico alle immagini dei cinegiornali dell’epoca, anche se non un solo fotogramma del film è costituito da materiale di repertorio.
L’effetto “presa diretta” è ottenuto in parte controtipando più volte il negativo per ottenere effetti ad alto contrasto, con la conseguenza di una fotografia molto sgranata in bianconero, in cui la quasi totale mancanza di grigi rispecchia quasi metaforicamente l’assenza di sfumature e di mezzitoni tra le due parti del conflitto, impegnate in una lotta senza quartiere che rivive sul piccolo schermo con immutata freschezza grazie anche alla valenza metaforica che la narrazione viene ad assumere se rapportata alle vicissitudini mediorientali, con gli americani a recitare, loro malgrado, la scomoda parte degli invasori.
Non è poi da sottacere il ripetuto ricorso, peraltro non frequente in campo puramente cinematografico, ad un uso calibrato di obiettivi di lunghissima focale, fino a mille millimetri, con il conseguente schiacciamento d’immagini tipico dei cinegiornali luce e dell’estinta settimana Incom.
Il film viene ad assumere un andamento pressoché circolare, con l’inizio strettamente collegato al prefinale ed il nutritissimo corpo centrale ricco di piani sequenza di estrema efficacia ed immediatezza, inteso come una vivida e trascinante cronaca degli “anni di piombo algerini”, con le ragioni di ambo le parti esaminate al microscopio ed un finale letteralmente trascinante ritmato dalla forza devastatrice della passione indipendentista di un intero popolo sceso spontaneamente in piazza a reclamare i suoi diritti. Rimane a lungo impressa nella memoria la destabilizzante cronaca delle atroci torture ad opera dei parà francesi accompagnate da un religioso sottofondo musicale presumibilmente tratto dalla “Passione secondo San Giovanni” di Bach, una muta ed annichilente testimonianza simbolica della volontà umana piegata e straziata fin dalla notte dei tempi dalla morsa del POTERE con la “p” maiuscola, una forza prevaricatrice che all’ombra di mille bandiere nazionali esercita il suo predominio basato sul terrore e sul soffocamento della sete di libertà dell’individuo. E si comprende benissimo, a giudicare dall’orrore rappreso che emana da tali immagini, il motivo del divieto di proiezione da parte della Francia col pretesto di offesa all’onore nazionale.
Pontecorvo ci elargisce una cronaca viva, ricca di potenza drammatica e di tensione estrema, a tratti vissuta come un’estenuante thriller pieno di improvvisi colpi di scena, dotata di scene di massa in movimento paragonabili all’impeto di un fiume in piena, sequenze di folla straripante che scende in piazza per reclamare la propria libertà con un’illimitata voglia di vincere, magistralmente concertate da un estro registico che riesce a restituire allo spettatore in tutta la sua carica disturbante l’intero distillato di emozioni racchiuso nel contesto della narrazione.
Da antologia le sequenze relative agli attentati a catena da parte di alcune donne algerine, dall’alto tasso di coinvolgimento emozionale, scandite con la stessa precisione di un orologio svizzero ed accompagnate a tratti da un opprimente sottofondo ritmico che esaspera e moltiplica il senso di aspettativa. Esse costituiscono forse gli unici momenti in cui la cronaca pura cede il passo alla fiction, seppure espressa ai massimi livelli ma nonostante l’estrema enfatizzazione della forza espressiva in esse racchiuse e l’efficace utilizzo della suspence tramite una ripetuta caratterizzazione dei primi piani intensi e ricchi di determinazione (l’immagine del bambino che consuma il gelato pochi minuti prima di saltare in aria è stata duramente contestata a suo tempo dalla produzione tunisina), si nota una certa discrepanza narrativa rispetto all’assieme, una trasfigurazione della realtà storica in termini più propriamente romanzeschi, con relativa perdita di verosimiglianza in confronto al resto della storia.
E se in seguito all’uscita del film si udì a destra uno squillo di tromba foriero di feroci polemiche reazionarie e da sinistra rispose un analogo squillo ostile da parte di quelle forze anticolonialiste alle quali il messaggio ideologico si rivolgeva risultò peraltro evidente che la battaglia non era finita, anzi! Essa era appena cominciata. Con la vittoria definitiva dell’oggetto cinema su qualsiasi tipo di (dis)agevolazione!

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