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Boomerang - L'arma che uccide

Regia di Elia Kazan vedi scheda film

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La recensione su Boomerang - L'arma che uccide

di fixer
6 stelle

Molti, tra coloro che amano il cinema, sanno chi è Elia Kazan. Molti di meno, probabilmente, conoscono Louis de Rochemont. Eppure il cinema gli deve molto. I cinegiornali, ad esempio, che tutti noi con i capelli grigi abbiamo visto nelle sale prima dell’inizio del film, sono stati rivoluzionati da questo signore i cui antenati, ugonotti, si erano trasferiti negli Stati Uniti nel 18° secolo.

In effetti, aveva inserito, nei suoi cinegiornali, prima solo notizie annunciate, filmati (battaglie, interviste ecc.). Questa sua ossessione per il maggior realismo possibile, aveva condizionato le produzioni di lungometraggi. In effetti, con il beneplacito di Darryl Zanuck, boss della 20th Century Fox, film come LA CASA DELLA 92° Strada (di H.Hathaway), 1945 o IL TREDICI NON RISPONDE (stesso regista),1947, sono una sorta di film-documentario in cui, come si annuncia all’inizio del film, i fatti narrati si sono svolti nei luoghi reali. Questa passione per l’autenticità (per quel che un film può consentire)può forse spiegarsi con il diverso clima sociale degli anni ’40. La guerra, l’arrivo a Hollywood di molti artisti immigrati dall’Europa, una nuova sensibilità sociale che cominciava a chiedere qualcosa di diverso dalle troppe insulse commediole e dai tradizionali drammi con scontato “happy end”. Si spiega così, ma solo in parte, l’affacciarsi del film noir, ad esempio. Ma è sicuramente questa nuova sensibilità che facilita l’uso del docu-film stile De Rochemont e altre produzioni di altre case cinematografiche (Es.: LA CITTA’ NUDA, di Jules Dassin,1948, della Universal).

Il film in esame è una dimostrazione di tutto questo. Il delitto di un prete, avvenuto nel 1924, a Bridgeport nel Connecticut e i fatti che ne conseguirono furono ripresi in un articolo apparso sul Reader’s Digest nel 1947 ad opera di Fulton Oursler (che si firmava anche Anthony Abbott).

De Rochemont pensò che poteva essere un’occasione per produrre un buon film, secondo i suoi criteri. Chiamò Elia Kazan, un giovane e promettente regista  che si era messo in luce due anni prima con UN ALBERO CRESCE A BROOKLYN, lodato dalla critica e dal pubblico, vincitore di un Oscar (per il migliore attore non protagonista e di una nomination per la miglior sceneggiatura non originale) e affida lo script a un giovane sconosciuto, il cui lavoro però gli valse la nomination per la miglior sceneggiatura.

Elia Kazan, di origine turca (era nato a Costantinopoli, ma aveva lasciato la sua terra per gli Stati Uniti all’età di 4 anni),a metà degli anni ’40 era stato chiamato da Hollywood, impressionata dai suoi successi teatrali. Era di idee progressiste (aveva militato tra il 1934 e il 1936 nel Partito Comunista da cui si era distaccato per forti contrasti con la linea politica). Questa sua predilezione per i film di impegno civile è evidente in film come FRONTE DEL PORTO, BARRIERA INVISIBILE ecc.) Ma, anche nel film in esame è chiaro il suo orientamento progressista. La storia è quella di un’intera città che vuole a tutti i costi un colpevole per l’omicidio proditorio di un prete e quella di un procuratore distrettuale che, nonostante enormi pressioni, riesce a convincere il presidente del tribunale e tutti dell’innocenza dell’accusato.

Il film sarebbe dovuto essere girato a Bridgeport, nei luoghi dei fatti reali, ma autorità e popolazione di quel paese non lo permisero e si dovette scegliere un’altra cittadina dello stesso stato e cioè Stamford.

La tecnica del docu-film è evidente nell’inserimento di una voce fuori campo che introduce la storia, nell’uso di attori non professionisti e nel mostrare solo al pubblico l’identità del vero assassino (che non verrà mai indagato, anche perché perderà la vita in un incidente poco dopo).

Il senso di questo film sta nell’integrità professionale, oltre che morale, del protagonista, procuratore distrettuale (State’s Attorney per il Connecticut, (quindi pubblico ministero), (interpretato da Dana Andrews, allora un attore al culmine della carriera) che, nonostante le pressioni ambientali, le prospettive di carriera politica, le minacce di politici corrotti, sceglie di indagare in modo scrupoloso, fino a dimostrare con prove inoppugnabili l’innocenza dell’accusato e quindi il non luogo a procedere.

Il film è strutturato in modo che la conclusione non debba essere vista come l’inevitabile trionfo della giustizia (cosa che lo avrebbe reso molto meno interessante), ma come sia forte e, spesso, insostenibile la pressione di elementi esterni che nulla hanno a che vedere con un processo. Ci si sofferma allora sull’inattendibilità dei testimoni oculari, sul superiore interesse politico rispetto a un caso giudiziario che veda uno sconosciuto sul banco degli imputati, sui pregiudizi della gente. Lungi dal rassicurare il pubblico sulla bontà del sistema giudiziario americano, il film semina molti dubbi che alla fine lasciano il pubblico con l’amaro in bocca. Se non era per un procuratore oltremodo onesto, si sarebbe processato (e probabilmente condannato) un innocente.

Il film è anche un atto d’accusa per alcuni metodi della polizia come ad esempio il tipo d’interrogatorio cui è sottoposto l’imputato (interpretato  da Arthur Kennedy). Egli viene interrogato senza pause, non gli è permesso prender sonno e, alla fine, stravolto, farfuglia qualcosa che viene considerata come un’ammissione di colpevolezza. Il film, comunque, non è esente da alcune forzature, come ad esempio la teatralità della scena in cui, nell’aula del tribunale, si fa puntare alla nuca la pistola trovata addosso all’imputato e il cui calibro corrispondeva al proiettile che aveva ucciso il prete. Non c’era evidentemente bisogno di farsi puntare la pistola al capo e premere il grilletto per dimostrare che quella pistola non poteva sparare. Ma evidentemente l’effetto sarebbe stato straordinariamente più forte.

L’anno d’uscita del film (1947) è anche quello di nascita del celeberrimo Actor’s Studio, diretto dallo stesso Kazan e da Lee Strasberg. Il tormento del protagonista, lacerato dalla scelta fra una luminosa carriera e la ricerca della verità, anche se scomoda, viene reso abbastanza bene da Dana Andrews, ma siamo entro i parametri di una buona recitazione. Siamo evidentemente lontani anni luce dalla memorabile interpretazione di Marlon Brando, allievo dell’Actor’s Studio in UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO,1951 (dello stesso Kazan).

Il cast si avvale di ottimi attori come Lee J.Cobb (il capo della polizia), Ed Begley(il politicante corrotto) e Arthur Kennedy (l’imputato), ma l’aspetto più importante del film è senz’altro la struttura narrativa diversa dai classici film (almeno fino ad allora) di “omicidio e processo”. Non c’è un vero e proprio processo, non c’è un vero e proprio pubblico accusatore, non si arriva al vero colpevole: al pubblico in sala è dato conoscerne l’identità, ma non alla polizia.

Per finire: il titolo. Non c’è traccia di boomerang. In effetti, si tratta di un’immagine figurata. L’arma che doveva incolpare l’accusato si rivela, paradossalmente, la prova che lo scagiona.

Il film è disponibile in DVD, in inglese e in italiano, come i sottotitoli. Il commento al film dei critici Alan Silver e James Urini è però solo in inglese. Un peccato.

 

 

 

 

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