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Il bandito delle 11

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il bandito delle 11

di callme Snake
10 stelle

La solitudine del romantico.
Una coppia di amanti in fuga dal mondo, un (improbabile) plot noir, una società sterile. Il mare, la natura, le confessioni, un diario. La Ford Galaxy del '62, L'Alfa Romeo, Samuel Fuller, Velasquez, Le Grand Escroc. Jean-Luc Godard, Jean-Paul Belmondo, Anna Karina (e Jean-Pierre Leaud, aiuto regista). Questi alcuni degli ingredienti che vengono lanciati (apparentemente senza logica), come macchie di colore, sulla tavolozza che darà vita al tableux Pierrot Le Fou. Godard affronta il Romanticismo, e lo fa a modo suo, ovvero in forma di saggio-poesia: i due protagonisti sono (dovrebbero, vorrebbero essere) "gli ultimi discendenti della Nuova Eloisa, del Werther e di Ermanno e Dorotea". Il loro rifiuto della civiltà senza sentimento in cui vivono si manifesta attraverso tutte le forme tipiche (e, in Godard, volutamente, freddamente stereotipiche) dell'universo romantico: il viaggio, nella sua variante della fuga, l'amour fou, la scrittura (il diario di Pierrot), la confusione con la natura (o il suo tentativo, soprattutto nella parte centrale, semi-parodia del Robinson Crusoe), la solitudine, la follia. Pierrot è una specie di intellettuale/artista/criminale che ricerca un'unità laddove ormai regna solo frammentazione e alienazione. Vorrebbe essere uno con il tutto: con se stesso, poi con la natura, con Anna Karina, forse persino con il pubblico, più volte interpellato. Non può. Certamente non può oggi, in questo mondo. Il colore è l'attante che si fa portavoce del sentore del suo fallimento: colori puri, campiture piatte, effetti da pop art, macchie cromatiche che si richiamano in continuazione, da un capo all'altro dello splendido Techniscope. Il continuo richiamarsi dei colori sembrerebbe evocare e rispecchiare il desiderio di Pierrot verso un'unità che sfiorerà (direi nelle sequenze musical che citano, forse, Vincente Minnelli: un regista non a caso spesso etichettato come "colorista") ma che non raggiungerà mai del tutto. I colori in Pierrot Le Fou sono infatti nettamente separati l'uno dall'altro, sono campiture di tinte pure in forme geometricamente definite: il massimo che possono fare è, appunto, richiamarsi l'un l'altro, senza mai mischiarsi per dar luogo a tutte le possibili sfumature. La con-fusione è impossibile. Il discorso cromatico iniziato con La Donna è Donna e proseguito nel Disprezzo (guarda caso tutti film in formato widescreen 2,35:1, contro l'1,37 Academy delle altre sue pellicole: come a voler creare un supporto abbastanza largo su cui stendere i colori liberamente) trova qui il suo apice e il suo senso (si veda la maestria con cui Coutard e Godard costruiscono le immagini: i colletti delle camicie e più in generale l'abbigliamento, le auto, gli arredamenti, i parallelepidedi-abitazioni, le bandiere, le luci che scorrono sul parabrezza e che bilanciano la composizione mediante la loro innaturale violenza cromatica). Il personaggio di Anna Karina forse è più consapevole (e meno romantico) di quello di Belmondo, conseguentemente lo tradisce, non condivide con lui fino all'ultimo la sua aspirazione, come Patricia Franchini/Seberg in Fino All'Ultimo Respiro. Dopo averne condiviso i sogni e dopo avergli giurato amore eterno, lei si scopre lontana, isolata, concentrata esclusivamente su di sé: non rimane altro da fare che tradirlo, condannarlo a quella solitudine contro la quale aveva lottato (i colori del suo abbigliamento, quando ricompare dopo essere sparita, si sono fatti più tenui...un indizio intenzionale da parte di Godard?). La distanza ha vinto. Rimane la follia individuale: non a caso, quando Anna Karina fugge in barca con i soldi e il suo nuovo uomo, Pierrot incontra un suo "simile", il pazzo sul molo che sente una musica che non esiste. E così acquista di senso anche la citazione dal libro su Velasquez, pittore di "folli" e pagliacci di corte, pittore di pierrot e di tristissimi principi-bambini, vero precursore della pittura romantica e della sua attenzione verso la diversità. Pierrot Le Fou è quindi un film romantico? Direi di no. Più che altro è una trattazione sull'impossibilità del romanticismo e la sua conseguente deriva in nichilismo (la celebre sequenza finale). La declamazione degli attori (eccezionale Belmondo), totalmente brechtiana, regala una distanza che non permette confusione allo spettatore con un po' di spirito critico. Lo stile è quello solito del Godard che svela l'illusione del cinema ad ogni occasione, che guarda da lontano e analizza il comportamento, il pensiero e il linguaggio. Tuttavia, dietro il suo sguardo glaciale, non è impossibile trovare della simpatia verso Pierrot, almeno nel confronto con il resto della società in cui è immerso. E se Fritz Lang nel Disprezzo si erigeva a monumento del cinema libero, del cinema morale, Samuel Fuller (che interpellato sulla natura del cinema risponde: "è un campo di battaglia [...] è sentimento") si erige a protettore di quello romantico, furioso, guerrigliero, anche e soprattutto quando destinato alla sconfitta. C'è ancora chi crede che Godard sia (solo) un distruttore di regole e di senso. Niente di più sbagliato: spesso è proprio dal non senso che Godard costruisce il senso, e con quali argomentazioni! Riguardiamoci Pierrot Le Fou, c'è ancora molto da imparare (da vedere rigorosamente nella versione originale integrale restaurata: evitare il DVD italiano).

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