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Il giardino di cemento

Regia di Andrew Birkin vedi scheda film

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La recensione su Il giardino di cemento

di maurizio73
8 stelle

Quando la madre, rimasta da poco vedova, muore nel proprio letto i quattro figli decidono di seppellirla in cantina per non essere separati dagli assistenti sociali e dover così abbandonare la loro casa nella periferia inglese. Nonostante l'incuria e la sporcizia che continuano ad accumularsi, i due figli adolescenti, un ragazzo ed una ragazza, sopperiscono alle figure genitoriali e cercano di accudire i più piccoli rivelando al contempo il morboso interesse di una reciproca attrazione incestuosa. L'arrivo in casa di un figura estranea alla famiglia, il fidanzato della figlia maggiore, sconvolgerà il fragile equilibrio che si è così venuto a creare e segnerà la fine di un menage domestico senza speranza e senza futuro.

 

 

Dall'omonimo romanzo di Ian McEwan e sulla scia di un realismo drammatico che strizza l'occhio al cinema britannico dei primi anni '90, Andrew Birkin trae un film cupo e intriso di un immendabile pessimismo, attraversato dall'oscura simbologia di uno stadio terminale di un processo di inesorabile disgregazione dell'unità familiare quale tessuto connettivo di una struttura sociale votata all'individualismo ed al tramonto stesso delle relazioni interpersonali. Attraverso l'utilizzo spiazzante del montaggio in funzione metaforica (la morte del padre mentre il figlio spreca il suo seme), lo squallore di uno desertificazione urbanistica di macerie e cementificazione selvaggia, le latenti pulsioni di una sessualità morbosa sottratta al rigido controllo della morale comune, Birkin ci parla di famiglia quale microcosmo di orrori ed anarchia di una società alla deriva, come aveva già fatto Bellocchio quasi trent'anni prima ('I pugni in tasca' - 1965) ma sottraendo l'argomento alle speculazioni politiche in chiave antiborghese che avevano contraddistinto l'esordio del regista emiliano e sostituendole piuttosto con il registro rarefatto e favolistico di una dimensione sociale senza tempo e senza speranza.

 

 

 

Se la regressione culturale e morale del paradosso familiare prospettata dal film pone questioni fondamentali sullo scosceso spartiacque tra ragione ed istinto (il rapporto di potere tra i due ragazzi maggiori mediato dalle pulsioni sessuali, l'identità fuorviata e imitativa del figlio più piccolo, l'ostina resistenza in un fortino di confessioni private della figlia minore), il regista finisce per ammorbidire la rigidità naturalistica del soggetto attraverso il ricorso ad un flashback onirico che, insieme alle divagazioni letterarie della narrativa fantastica che accompagnano i sogni ad occhi aperti del protagonista, trasfigura le labili certezze di una identità sessuale che sembra smarcata dalla propria funzione sociale (chi è il padre? chi la madre? chi il figlio? chi l'amante?). Non c'è più progresso in una famiglia impermeabile all'intervento esterno, dove si smarriscono i ruoli fondamentali, resa sterile ed immobile come gli inutili ornamenti di un giardino di cemento cristallizzato nella sua immutabilità, senza più la speranza di un cambiamento, nell'inutile attesa di una Primavera che non verrà mai più ("Tutto sembra fisso e calmo. Non spaventato molto più da niente. Mi sembra di aver dormito per tutto il tempo trascorso. Come se non fossi mai nato. Mi sento senza peso. Come se galleggiassi nello spazio").
L'epilogo, per questo castello di bugie, sembra comunque inevitabile, segnato com'è dalla ragione di un diritto e da un ordine sociale che inevitabilmente estenderà il suo dominio sul singolare paradosso di un'inaccettabile anarchia domestica ("...Deve finire suppongo, ci succederà come a tutti gli altri. Un giorno qualcuno prima o poi verrà a frugare e scopriranno qualche mattone rotto tra l'erba alta.").

 

 

 

 

Bravissimi i due giovani protagonisti, tra cui una civettuola e conturbante Charlotte Gainsbourg diretta proprio dallo zio materno. Orso d'argento per il miglior regista al Festival di Berlino 1993.

 

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